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BLACK LAKE FESTIVAL V – secondo giorno

Era oramai un anno che aspettavamo la calata italica degli Alcest. L’anno scorso infatti l’opportunità ci sfumò davanti agli occhi causa sold-out del locale. Durante questo lasso di tempo, tutti i pareri pervenutici su quel concerto sono stati più che positivi, tali da far crescere l’attesa a dismisura. Abbiamo così seguito il consiglio del vecchio dottor Mentadent: “ Prevenire è meglio che curare” cautelandoci per tempo su biglietti e accrediti per la seconda giornata della quinta edizione del Black Lake Fest. Una volta giunti al Carlito’s Way (colpevolmente un po’ in ritardo, dopo le otto) siamo rimasti un po’ colpiti da un affluenza di pubblico probabilmente parecchio al di sotto delle previsioni. Non che per noi sia un problema, anzi, ma spiace per la Eyecarver che tramite Dimitri (che non ho avuto il piacere di conoscere ma ringrazio per la rottura di coglioni a cui l’ho sottoposto nei giorni antecedenti il concerto) si è resa sempre più che disponibile.

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Venendo al report quando entriamo si stanno esibendo gli Azahel’s Fortress. Preciso di non essere la persona più indicata per stendere un report dei gruppi pre-Alcest in quanto seguo la scena black attuale quanto i giocatori dell’Inter l’azione in fase difensiva in questo ultimo periodo (che mi smentiscano pure, tanto oramai è tardi…). In ogni caso gli austriaci rispecchiano tutti i canoni del gruppo black medio che si rispetti: borchie a go go e classico face painting accompagnano un rapporto col pubblico molto freddo, quasi nullo (ma c’è chi farà di peggio). Il sound più che alla scena mitteleuropea guarda più alla “madre” scandinavia, tirato ma melodico, scale e giri classici un po’carenti di pathos ma prestazione strumentale buona. Dalle informazioni recepite in rete a posteriori trattasi one-man band, non so se il tipo dietro al microfono sia il fantomatico Demonstorm Azahel (…) ma proprio lui risulta essere l’arma in più grazie a uno screaming acuto e tagliente che si può avvicinare, per dare un’idea, a quello di Hoat Torog dei Behexen su Rituale Satanum (una delusione cocente invece in sede live). La prestazione sale nel finale con l’esecuzione di Unsilent storm in the north abyss dei mitici Immortal, di cui nessuno sembra accorgersi e che entusiasma solo il sottoscritto, non saranno gli originali a suonarla ma l’esaltazione adolescenziale risale sempre con questi tuffi nel passato…

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Del progetto nostrano Melancolia Estatica avevo sentito parlare più volte ma mai prima di oggi ero stato tentato all’ascolto. La formazione live della band è la classica a cinque con una seconda chitarra a supporto di quella della leader Melancolia. Il quintetto si presenta in uniforme da rituale con mantello con tanto di cappuccio e riga orizzontale nera ad altezza occhi. Sarà anche una scelta voluta ma per conto di chi scrive una band dal vivo non può non relazionarsi minimamente col pubblico, nemmeno un saluto nel finale, la vedo come una mancanza di rispetto, qualunque cosa uno voglia trasmettere con la propria musica. Opinioni personali a parte la band ci propone un black molto melodico condotto e quasi totalmente basato sulla chitarra di Melancolia (a cui un bel sorriso verso il pubblico scappa…eccheccazzo!) che trascina con un bel riffing personale, quasi sempre serrato ma al contempo malinconico, andando ad abbracciare anche tonalità maggiori risultando il vero punto di forza del gruppo. Anche il basso a tratti si discosta dai soliti standard grazie a scelte semplici ma che spezzano con batteria e chitarre conferendo un po’ più di dinamismo ai brani. Brani che qualitativamente a mio avviso sono distanti uno dall’altro, a volte la carica di pathos è veramente trascinante, altre un po’ meno. So che si tratta di stilemi del genere ma la struttura dei brani e il modo di suonare così ridondante, cantato e ritmiche e sempre uguali ripetute all’infinito, a mio modo di vedere, rappresentano un limite creativo enorme, soprattutto per chi le emozioni le sa comunicare.

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Di questo pensiero devono essere anche i Frostmoon Eclipse, band spezzina molto attiva sia discograficamente che a livello concertistico, in cui però colpevolmente non mi imbattevo molti anni, se non sono una decina, poco meno. Di quel poco che mi ricordavo è rimasta quasi solamente la faccia del cantante Lorenzo Sassi, che da timido ragazzino poco mobile sul palco è diventato un frontman fatto e finito, di ispirazione decisamente anselmiana per look e movenze. Quello che però più mi ha veramente colpito è stata l’evoluzione musicale che la band ha compiuto. Al black metal delle origini, sempre presente anche se in forma decisamente più variegata e matura, ora vanno a unirsi rallentamenti corposi al limite dello sludge e quell’inconfondibile sapore di acido figlio della scena psichedelica degli anni ‘60/’70. Purtroppo della band non conosco né la discografia né l’evoluzione ma i brani proposti in questa serata sono molto diversi tra loro sia a livello strutturale che per approccio. Se i primi brani alternano parti cadenzate a improvvise sfuriate black (che, se vogliamo trovare un difetto, non sempre si amalgamano al meglio col resto del brano) dove Norvegia e Svezia si danno il cambio, man mano che il tempo passa anche l’intensità aumenta con cavalcate che arrivano a scomodare nomi come Satyricon e Borknagar nei tempi d’oro, aumentando poco a poco i consensi della folla antistante il palco che si fa sempre più corposa e coinvolta. L’ottima resa sonora del Carlito’s da una mano al quartetto, viene valorizzato in particolar modo l’ottimo lavoro del bassista Davide Gorrini, un’ anima ipnotica e pulsante capace di valorizzare al meglio ogni brano grazie a un’ottima fantasia supportata da altrettanta padronanza dello strumento. Ogni membro della band comunque infila il proprio talento dove può, ne risulta un grande show, che raggiunge l’apice nel finale con la cover più azzeccata che potesse esserci: Black Sabbath, chiudendo un concerto coi controcazzi!

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E finalmente arriva il turno degli Alcest, attesi spasmodicamente praticamente da tutti i presenti al Carlito’s Way stasera. Prima che i francesi attacchino infatti nel locale non ronza una mosca, l’attesa e le aspettative sono palpabili. Il quartetto capitanato dall’etereo Neige su questa atmosfera ci vive e attacca con Primtemps emeraude. Il tempo di finalizzare il suono da parte del fonico e gli Alcest non attendono a trascinarci subito nel mondo privato e sognante dell’infante Neige, se non fosse per un interesse tecnico di cui non riesco a liberarmi terrei gli occhi chiusi per tutto il concerto, vagando per le atmosfere disegnate dai parigini. La prima curiosità va ai session member del progetto: protagonista il batterista Winterhalter, la cui batteria è messa decisamente in primo piano dal fonico facendolo risultare vero e proprio motore dell’Alcest trip, una prova veramente sopraffina per tecnica e gusto (a parte qualche minima sbavatura di riscaldamento durante i blast sui tom della prima canzone). Alle cinque corde troviamo il bassista dei Peste Noire Idria, sud-orientale nei tratti ma che non dona quel tocco in più che speravamo limitandosi a eseguire, senza sbavature, le linee di basso scritte da Neige. A coadiuvare quest’ultimo ai cori (tanto perfetti da sembrare finti, ma assicuriamo che non è così) e alla chitarra, con una prova tanto superba da mettere in ombra il leader della band, un sosia di Woodie Harrelson ( Natural born killers e altri 3000 film circa) coi capelli lunghi che si nasconde dietro il monicker Zero, musicista sopraffino che si sobbarca gran parte degli assoli e cura in modo maniacale il suono della propria sei corde lasciandoci decisamente allibiti in più di un’occasione. Neige stanzia al centro del palco con fare perennemente pacato e armonioso, quasi sognante, ammantandoci con la sua voce soave e la sua chitarra capace di alternare malinconia rabbia e pace all’interno di un singolo brano. La presenza scenica non è proprio quello a cui punta, anzi diciamo che non gliene frega proprio una mazza, molte volte, nelle parti più complesse si gira verso la batteria assieme agli altri musicisti per concentrarsi al massimo sulla perfezione esecutiva, scelta che appoggiamo in toto. Dopo la prima canzone è subito tempo una delle hit discografiche marcate Alcest, Les Iris, seguita da un bellissimo brano nuovo intitolato Summer’s glory in cui in quartetto si distacca ancora più dalla vena black concentrandosi più su un impatto sonoro decisamente potente, almeno in sede live, che a tratti può ricordare il Devin Townsend di Terria. Dall’ultimo disco vengono estratte Ecailles de Lune part. I, Solar song e Percées de lumière, mentre dall’Ep Le Secret la title-track e la blackeggiante Elevation, posta in chiusura, scelta a mio parere discutibile visto la direzione intrapresa dalla band con gli ultimi due album. Neige sorride ringrazia e si congeda, tutti aspettiamo il bis ma la band tarda a rientrare, provo a cacciare due urli tra un pubblico abbastanza moscio, una Sur l’océan couleur de fer c’avrebbe mandato definitivamente alle cozze, ma niente da fare, il primo piatto della batteria comincia ad essere svitato e ci avviamo sulla strada di casa, comunque pienamente soddisfatti e contenti, finalmente, di aver visto questa meravigliosa band dal vivo.