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Electric Wizard – Doomraiser – Shinin’ Shade – Talisman Stone – Caronte

Gli Electric Wizard sono probabilmente all’apice della popolarità, alfieri indiscussi dello stoner/doom tenebroso e intossicato, scabroso e malato, passato dal suono ultra- disturbante dei capisaldi “Come My Fanatics” e “Dopethrone” a una ridefinizione in chiave sabbathiana moderna, sicuramente più umana, degli ultimi lavori. Un camaleontismo nient’affatto drastico, che li ha resi assimilabili a una platea più vasta rispetto a quella dei primi dischi, più estremi e ostici del materiale a seguire. L’ultima fase di carriera li ha visti comunque inderogabili sul punto più importante, la qualità della musica, sempre altissima. Non sorprende quindi che ad assistere all’unica data italiana di questo tour europeo non ci siano quattro gatti iperesperti di underground, ma anche il semplice metallaro comune, dallo spettro di ascolti abbastanza ampio, che magari a forza di sentirsi rintronare le orecchie su quanto siano bravi gli Electric Wizard, nelle discussioni sul web e nelle chiacchere di qualche amico intrippato dell’act albionico, ha voluto fare un salto di persona a saggiare la veridicità di certe affermazioni. E già che c’era, si è gustato il goloso spaccato di doom (e non solo) nostrano che non manca mai di dimostrare il suo valore simili circostanze.

 

CARONTE

Una piccola coda alla cassa ci fa entrare quando i Caronte hanno già preso possesso del palco e hanno iniziato a far tremare l’ambiente circostante, che in forza di una acustica encomiabile (trattasi di ex cinema/teatro di ampie dimensioni) riverbera convenientemente le note corpose del combo. Basse frequenze rimbombanti, incassate in lovecraftiane apocalissi sonore dilatate in esoteriche volute, avvolgono chi ha avuto la buona idea di arrivare presto e non perdersi nulla della serata. I Caronte, come nella data di dicembre di spalla ai The Devil’s Blood, assurgono a punto esclamativo del ciccioso programma di supporto agli headliner, in forza di una spinta occulta e magica che va al di là dei testi e viene trasmessa ineluttabilmente con una elaborazione mirabile di riff colossali stemperati in psichedelia, licantropici sussulti di marca Danzig, congestionanti suggestioni alla Electric Wizard. I Caronte in dimensione live aggiungono alla bellezza magnetica dei pezzi una istintività animalesca, disturbata e ammaliante, che ha per principale interprete il frontman Dorian Bones. Dotato di una delle voci più originali e caratterizzanti in circolazione, non fa mancare impeto e trasporto nello stage-acting, in netto contrasto al rigoroso immobilismo dei precisissimi compagni. Il pathos sofferto della band diviene particolarmente esplosivo in “Ghost Owl”, il manifesto di questo loro primo periodo di vita. Va a farsi benedire anche la proverbiale asetticità con cui il pubblico accoglie di solito i primi gruppi all’opera, e a fine concerto le facce convinte, entusiaste e, per chi li vedeva per la prima volta, stupefatte, erano lì a testimoniare il segno lasciato. Aspetto con trepidazione il primo full-lenght, l’ep d’esordio lo so quasi a memoria.

 

TALISMAN STONE

Odoroso incenso riempie le narici di chi si piazza di fronte al palco in attesa del secondo gruppo, guardando intanto con curiosità il sitar posto dinnanzi alla batteria.

I primi tocchi prodotti su questo strumento dal bassista/cantante Andrea Giuliani sono l’enigmatico biglietto da visita di questo strambo trio per due terzi al femminile, senza chitarra, con doppio basso e voce femminile e maschile dispensate in egual misura. Scenografico e inconsueto è anche l’aspetto visivo, Giuliani porta una specie di gonna nera lunga fino ai piedi e strani disegni sul petto nudo e la faccia, mentre la bassista/cantante Erica Bassani si presenta con tacco alto e vestito più o meno da sera, con spacco da un lato. Più sobria la batterista. Perlomeno stravagante la musica, per apprezzare la quale bisogna dimenticarsi del senso di vuoto lasciato dalla sei corde e lasciarsi trasportare dal palpitante duellare dei bassi. Si entra in un circo di tribalismi e percussioni legnose, rotte da voci celebrative, più gentili quelle di Erica, più vigorose e in qualche caso sporcate quelle di Andrea. I due bassi suonano in maniera inconfondibilmente diversa, si sente che sono strumenti dalla caratteristiche ben distinte, e quello al maschile improvvisa pure degli interessanti assoli; il sitar funge invece da sfibrante protagonista dei frangenti più estatici, di abbandono totale di qualsivoglia forma di canzone, mentre altrove un minimo di filo logico permane, per quanto tortuoso. Il focus va sul senso del ritmo e su dinamiche assai poliedriche, molto differenti da una canzone all’altra; i nostri creano un’ambientazione anomala di difficilissima digeribilità, ma non priva di un certo fascino. Le parti più movimentate hanno di certo più presa, quelle atmosferiche rischiano di stancare, va in ogni caso apprezzato il lavoro di ricerca compiuto e la capacità di riprodurre validamente dal vivo una forma musicale tanto non-convenzionale.

 

SHININ’ SHADE

Gli Shinin’ Shade riportano il discorso in un contesto più noto, nel quale una forte identità hard rock si mescola a vibrazioni progressive, blues e doom, con una impronta psichedelica a fare da trait d’union. La musica del combo, fresco autore dell’ep d’esordio Slowmosheen, è caracollante e umorale come le pose della cantante, intenta a muoversi quasi barcollando per il palco, esalando nel contempo vocals potenti, insieme limpide e acide, vera cifra distintiva della band. Le canzoni si destreggiano fra sommovimenti chitarristici zeppeliniani e traccheggio psichedelico, denotando una forte predisposizione alla materia oscura e di ampio respiro, che possa però mantenersi rockeggiante e abbastanza immediata. Il gruppo a volte abbraccia in toto l’idea di un hard settantiano e dal linguaggio alla portata dell’ascoltatore della strada, disorientando un attimo dopo tale ideale figuro facendolo perdere in divagazioni vaporose, quasi da improvvisazione fuori dagli schemi del pezzo. Pur bravini, gli Shinin’ Shade alla fine non abbrancano del tutto l’ascoltatore e finiscono per rimanere nella terra di mezzo che separa le esibizioni di routine da quelle che rapiscono inesorabilmente.

 

DOOMRAISER

Impennata di interesse a questo punto con l’arrivo on-stage dei marinai di lungo corso Doomraiser, band longeva di cui sarebbe limitativo parlar bene solo per gli anni di presenza sulla scena. I romani sono ormai una cult-band a tutto tondo, forti di un doom potentissimo modellato su canoni classici e sbattuto a più riprese da una esagitata indole rock’n’roll. Il singer si presenta con tanto di maschera di maiale e mini-sintetizzatore moog, attorniato da compagni dalle parvenze di esperti bikers, il batterista Pinna su tutti. Primi accenni di mosh con gli autori del recente “Mountains Of Madness”, che al pari dei maestri Saint Vitus suscitano i bassi istinti con la stessa naturalezza con cui gettano nella notte più buia; velocità motorheadiane e rallentamenti sfiancanti convivono magnificamente, i nostri bazzicano nel doom come fameliche locuste, prendendone sia gli accenti tenebrosi che quelli rolleggianti. Il sintetizzatore aggiunge colore a pezzi ficcanti e spesso molto movimentati, accompagnati dalla voce un po’ nasale di Nicola Rossi che più doom non si può. L’unico neo dell’esibizione sta nella sua brevità, i Doomraiser godono delle stesse tempistiche di chi li ha preceduti, e visto l’impeto scatenato è chiaro che una durata maggiore alla mezz’ora scarsa avuta a disposizione sarebbe stata apprezzata. Grande dimostrazione di forza, quindi, all’altezza della fama costruita dal gruppo negli anni.

 

ELECTRIC WIZARD

E ora l’attesa è palpabile, lo stregone sta per officiare e il suo popolo adorante si stringe attorno al capiente palco del Fillmore. Provo una piccola delusione nel non vedere alcuno schermo sullo sfondo, quando la parte visuale, costituita di vecchi film orrorifici/mezzo pornografici/perversi e in ogni caso da puro sottobosco cinematografico anni ’70, è elemento non secondario dei live del quartetto. A fine concerto mi accorgo che le immagini stavano scorrendo su due schermi ai lati del locale, di cui credo non si siano accorti in molti durante il concerto… L’assenza delle immagini avrebbe dovuto fungere da primo indizio sul taglio dato dagli inglesi al concerto; se allo scorso Hellfest era stato esaltato l’aspetto ritualistico/stregonesco della musica, con musicisti in penombra, pressoché immobili, e zero parole dette al pubblico, stavolta Jus Oborn e soci scelgono di esaltare la fisicità e l’impatto da mammut al galoppo che tanti loro brani hanno. Con il sostanzioso supporto di suoni ingrossati e fragorosi gli Electric Wizard si abbattono come una slavina sul pubblico, assaltandolo senza pietà e provocando un disordinato marasma umano a bordo stage. Manca il multitatuato Tas al basso, non so se temporaneamente o a titolo definitivo, in ogni caso il suo sostituto si limita a suonare senza dare neanche un’occhiata oltre lo strumento, restandosene in disparte, come se del concerto poco gli importasse. Liz medesima si muove abbastanza algida, con un lieve headbanging a sottolineare le scosse della musica, mentre decisamente incazzoso, a tradire una dimensione da orso feroce celata a stento, il leader Jus Oborn vive il concerto come una lotta furibonda nelle fila delle forze maligne. La set-list si concentra sull’ultimissima porzione di carriera, il materiale di “Black Mass” spadroneggia nella prima metà, con l’esplosione definitiva sulle note del pezzo omonimo, che assume le sembianze di un rabbioso sabba nel martellante ritornello. Dopo “The Nightchild” dalle armi di sgozzamento si passa alle angosciose torture medievali, quelle prolungate e insistite fino alla pazzia, prima ancora che alla morte. “Witchcult Today”, “Satanic Rites Of Drugula” e “The Chosen Few” ci ricordano chi siano i re della notte e degli incubi senza ritorno; il morboso reiteramento dei riff si fa celebrazione delle più sinistre devianze, gelando dalla paura fin nelle ossa. La voce di Oborn si fa lamentosa nel chorus maledetto di “The Chosen Few”, che traghetta nei gironi profondi dell’Inferno, prima di scaraventarci nelle sue barbare pene con il brano più conosciuto del combo, “Funeralopolis”. Si riprende il leit-motiv di inizio show e già nella prima parte di canzone, quella lenta, lorda e schiava delle droghe, i fremiti della folla sono palesi e sfociano in violente mareggiate in corrispondenza della fustigante seconda parte, resa velenosissima dal cantato impastato e da chitarre sommerse di riverberi. Si chiude qui, senza bis, lasciando un pizzico di amarezza a chi sperava in un concerto più lungo e invece, dopo una ora tonda tonda, deve alzare i tacchi verso casa. Effettivamente qualche altra canzone l’avremmo gradita, ma è stata tale l’intensità della prestazione che alla fine nessuno sarà rimasto scontento.