Quando circolano troppe voci riguardo a un album in uscita, inizio a diventare diffidente…comunicati stampa di varia matrice, voci che riportano a scelte stilistiche non ben definite e una colossale manovra marketing sono indizi che mi spingono a dubitare sul reale valore musicale di quella particolare uscita…se poi ci troviamo al cospetto di una band recidiva, l’allarme scatta automaticamente.
I Sonata Arctica hanno sempre avuto il valore aggiunto di saper seguire il proprio credo, un valore oggettivo che li ha resi genuini davanti a vecchi e nuovi fans…tuttavia i risultati non sono sempre stati esaltanti, specie all’indomani di un disco molto ricco come “The Days Of Grays”, capace di unire elementi progressivi
e puramente power in un connubio pressochè perfetto. Il precedente “Stone Grows Her Name” era comunque un buon disco, ma dopo vari ascolti tutto appariva scialbo e ripetitivo, e questo nuovo “Pariah’s Child” dovrebbe avere il compito di riportare la band a un sound caro agli esordi…cosa che sulla carta può anche essere avvincente, ma in termini prettamente ascoltabili lascia a desiderare.
Pur usufruendo di tutta la tecnologia possibile in termini di produzione, mixing e mastering, “Pariah’s Child” non decolla se in qualche raro caso…i suoni sono tipicamente freddi e cristallini, comuni a tutti i lavori della band, e le performance sono studiate e appaganti come non mai (in studio Tony Kakko sa il fatto suo, non
ci piove), ma è nel songwriting che tutto finisce per essere confuso e poco definito, quasi ogni decisione fosse stata presa con fretta e ansia senza considerare il risultato finale…metaforizzando, è come se la band avesse a disposizione tutti i componenti per costruire un fucile automatico ma non avesse scaltrezza nell’assemblarlo.
Idee convincenti si possono trovare nella potente opener, o in “Take One Breath” o nella meno diretta “Blood”…tutte tracce toste ma senza un obiettivo dove mirare, senza un coro che si ricordi al primo ascolto. “Running Lights”, “Cloud Factory” e “Larger Than Life” sono capitoli che possono creare interesse nell’ascoltatore, così come la più irriverente “What Did You Do In The War, Dad?” o la meno seria “X Marks The Spot” fanno sorridere a un primo ascolto; “Love” bocciata in pieno (uno dei peggiori lenti che abbia mai sentito) mentre “Half A Marathon Man” si lascia apprezzare per le sue venature hard rock.
Sufficienza presa anche questa volta, indubbiamente, ma a guardar bene sembra di non trovarsi più al cospetto di quei cinque miei coetanei che han dato vita a capolavori come “Reckoning Night” o “The Days Of Grays”…speriamo nel futuro.