“Quando avevo quindici anni mi piaceva la musica offensiva sia in termini di testi che di suono, qualunque cosa potesse far incazzare i miei. Per fare questo disco abbiamo dovuto metterci in contatto con tutto ciò.”
Parole forti, quelle di Mike Shinoda, nei confronti di una produzione che si preannuncia cattiva e irreprensibile: “The Hunting Party” non deluderà in nessun modo i fan più longevi di questa band che si appresta a raggiungere i 20 anni di attività, entrando in scena come qualcosa di tanto desiderato, quanto inatteso.
Se da un lato si abbandona il percorso elettronico, dub, che aveva segnato profondamente i due album precedenti, e che perde ora il ruolo di matrice fondamentale, permanendo soltanto come venatura qui e la, come, ad esempio, nella opening track “Keys To The Kingdom“, dall’altro ci si allontana incredibilmente anche dal Nu Metal in cui la band ha fatto le sue origini.
Un’impostazione totalmente Hard Rock che accompagna la produzione in tutte le tracce, lasciando trasparire una forte nostalgia nei confronti dei bei tempi di Hybrid Theory, in brani quali “All For Nothing“, con la collaborazione di Page Hamilton (Helmet, ndr), “Wastelands” e “A Line In The Sand“, dove le influenze Rap manifestano di essere ancora vive negli ideali di questi sei ragazzi.
Forte richiamo al 2003 di “Meteora”, con più melodie accattivanti, ritornelli indimenticabili e sound meno cattivo, “Guilty All The Same“, in collaborazione con Rakim, “Until It’s Gone“, “Mark The Graves” e “Final Masquerade“.
Notevoli “Rebellion“, con l’entrata di scena di Daron Malakian, il cui apporto è senza dubbio significativo, nel donare alla traccia un sound Alternative Metal, in stile SOAD (System Of A Down, ndr), e “Drawbar“, con Tom Morello (Rage Against The Machine), per essere in grado di tenere l’ascoltatore con il fiato sospeso per i suoi 2 minuti e 47.
Una sorpresa firmata Linkin Park: risultato eccezionale per un lavoro i cui precedenti avrebbero annullato qualsiasi tipo di aspettativa.
