Che siamo nati con le ali ma non ci hanno mai insegnato a volare
Vi siete mai chiesti il perché?
Sarà forse per evitare che cadiamo dal cielo?
O è per fermarci dal volare troppo in alto?”
Se, da un lato, di volare in alto, ormai, il gruppo britannico se ne intende così bene da spiccare per altezzosità e spavalderia, dall’altro non ci sono più dubbi: i signori di Leicester hanno ormai spiccato il volo verso nuovi orizzonti.
Abbandonato il Classic Rock di tradizione beatlesiana, e allontanatisi anche dall’eredità lasciata dai fratelli Gallagher, i Kasabian si spingono sempre più verso un Rock’n’Roll dall’aspetto psichedelico, dove l’elettronica diventa un punto di forza, che fa il suo ingresso con assoluta parsimonia, aggirando l’ostacolo della commerciale Dub.
Un album fresco e leggero, ma al contempo estremamente complesso, all’ascolto e, soprattutto, alla comprensione: diviso in tre atti, come un’opera teatrale, da tre intermezzi “(shiva)“, “(mortis)” e “(levitation)“, si presenta come una metafora del volo, dell’ascesa, del potere metafisico della mente umana.
E’ l’etere, la quintessenza tramutata in musica, una nebulosa di suoni caotici, che nel loro disordine sono assolutamente ordinati: profondo, meditativo, lo stile di questa produzione è eccezionalmente unico e personale.
Personale allo stesso modo, la scelta di nascondere un mondo di significati dietro una veste apparentemente insignificante: un titolo, “48:13“, che non rappresenta altro che il minutaggio totale dei brani, su una copertina rosa fluorescente, banale, quanto i ritmi e la musicalità presentati, assolutamente grandiosa, come l’idea alla base di questa produzione.