Da ascoltare con riserva
Un primitivo, aggraziato angelo, dalle fattezze femminili e dalla scheletrica aria abbandonata, che si rinchiude nel proprio guscio che sfocia in disgraziate nuance e gradazioni blu cobalto, una manciata di smaniosi petali rosso sangue, uno sfondo bianco latte: sono questi i primi appunti che colpiscono ad un primo sguardo dell’artwork, amatoriale a dir la verità, del primo parto dei Black Diamond, il quale farebbe sicuramente pensare ad una formazione più estrema e asfissiante rispetto a quanto non lo sia realmente. In realtà i cinque metaller si muovono su ben altri binari. Nati nel dicembre del 2004, per opera di due paia di menti illuminate, ottengono fin da subito lusinghieri risultati, come l’ardito secondo posto al Lucania Rock Festival e come nutrite esibizioni live come spalla a blasonate band come l’inossidabile La Strana Officina. Con queste credenziali, nel 2008 si presentano al grande pubblico con il loro primo pargoletto autoprodotto, Mourning For Me. L’esplosivo moniker richiama subito alla mia mente i fruscii perpetui dell’omonima e celeberrima traccia degli ex astri per eccellenza del metal finlandese, gli Stratovarius, e le loro gloriose gesta del passato, associazione non del tutto errata per inquadrare la nostrana proposta. Il genere ormai è sempre più o meno quello: oltre al piratesco power metal ipermelodico, che deve molto alla tradizione europea, emergono tracce nelle fenditure e nei solchi di reminiscenze progressive e morbidi incisi di symphonic metal, con un ampio uso di tastiere pregne di un gusto inusualmente solare, palesando l’innegabile devozione che la new sensation italica prova verso incauti act come i già citati Stratovarius e le loro soft lullaby, i Nightwish e i loro arditi cortometraggi ma anche verso gli Angra e le loro brasiliane danze. Melissa, invece di tentare di incantarci con i soliti esibizionismi lirici, ci avvolge con un cantato sbarazzino e zampillante, apparentemente inoffensivo, che si avvicina alla vigorosa tecnica di Laura (Tystnaden), al quale vengono appoggiati sprazzi di ordinario growl, che con impostazione fredda intona i suoi scolastici latrati.
Il problema principale a bruciapelo è che i Black Diamond non possiedono nulla che permetta loro di emergere dalla massa, escluso qualche piccolo segmento cantato in lingua madre, in grado di distinguere l’ensamble dai mille cloni. Esistono troppi gruppi in una scena sovraffollata, nella quale la concorrenza è alta e spietata, con i quali il nostro bozzolo di seta perderebbe in un ipotetico confronto anche solo con una qualsiasi opera nella media. Anche la produzione non è delle migliori, a causa della quale l’equilibrio tra le parti spesso vacilla e si necessiterebbe dell’inserimento di una maggiore dose di aggressività, la quale potrebbe creare grandi cose. The Evil Fall è una clonazione delle canoniche introduzioni di enfant prodige quali After Forever e Nemesea (ai tempi di Mana), con tanto di manipoli di spezzoni narrati, che si presenta senza infamia e senza lode anche se nel complesso manca del giusto piglio. La fame di armonici archetipi non si è sopita con Fallen Angel, dove è tutto un brulicame di tastiere, delle quali il sottofondo ne riempe l’architettura, e di binomi vocali tra voce femminile e growl maschile, che si intrecciano quasi come rada edera. Never-ending Eclipse avanza la pretesa di strizzare l’occhio, per la sua impronta molto più diretta, a sonorità accessibili prestando fede a una misurata ragnatela di invitanti chorus, ingannevoli strofe e accattivanti spartiti. Greenwoods è una creatura che naviga nella scontentezza a causa della sua sfilza di lacunosi assoli. A favore dei tradizionalismi, in tutti gli infernali full di questa specie arriva il momento della ballad strappalacrime, che succhia voluttuosamente la nostra sensibilità. December Winds vorrebbe essere ciò e molto altro, ma finisce per essere solo una normalissimo mid-tempo basato principalmente sui syhth. Ascension non intende cedere di un millimetro rispetto a quanto suonato precedentemente e si presenta cangiante, onirica e sognante, incentrata sulla chitarra e vicina alle lullaby più soft di Vanitas (Macbeth). Funeral Of A Suicide è sospeso tra acquatici minimalismi e dilatate empietà, anche se nel complesso si dimostra floscio e anemico, quasi privo di una qualsiasi robusta vitalità eroica o forma aristocratica. Infine l’ultima Lake Of Melancholy abbraccia in toto l’oscurità barocca e la bisbigliosa tecnica a tutto tondo dei cinque, dove finalmente viene fatto emergere il loro lato più illuminato, offrendo buone speranze per il futuro.
Non si può negare che i primi passi siano sempre quelli più difficili ma ora, appena dopo l’imminente uscita di questo appena sufficiente full lengh, non si può che definire il combo dalle movenze feline, autore di un più che evidente mezzo tonfo nell’acqua, destinato soltanto alla cerchia dei veri e propri affezionati della proposta. Il domani più prossimo preverrà pioggia e nebulose turbolenze? La risposta, fino a tempo indeterminato, è persa nel vento.