I Converge non invecchiano, i Converge non calano, non si rilassano, non perdono colpi. Gli anni passano, e loro rilanciano, mantengono intatta vitalità e creatività, reinventano quanto proposto in passato, lo trasmutano, lo smantellano e ricompongono la materia in un’altra forma, sempre entusiasmante. “All We Love We Leave Behind” ha dato uno scossone potente alla scena metal, hardcore e alternative, chi presta un minimo di attenzione alla musica non convenzionale si è accorto che l’ultimo disco dei bostoniani è una ennesima dimostrazione di grandezza, un ascolto violentissimo, stratificato, intelligentemente schizoide e viscerale, che scaturisce dall’anima inquieta di una formazione mai paga e mai doma.
Per quanto siano deliranti ed esagerati su disco, è però la dimensione live a dare forma compiuta all’idea Converge, perché è qui che esplode compiutamente, senza più argini che la contengano, la comunicatività impattante, diretta e distruttiva come un gancio in pieno volto dell’ensemble di Jacob Bannon. La fase europea del tour di supporto al nuovo disco, preceduta dalla tournee americana, mentre la sessione australe/nipponica si svolgerà a febbraio 2013, approda in Italia nella sua fase conclusiva, proponendo oltre agli headliner un pacchetto di tutto rispetto, comprendente i nostri terroristi sonici The Secret, il post-metal apocalittico degli A Storm Of Light e lo screamo frammentato dei Touchè Amorè. La data milanese diventa anche un test per la location, il Factory, locale aperto da pochi mesi e sito proprio sotto la tangenziale est, in una zona periferica e con qualche problema di parcheggio, visto che ci siamo trovati a disporre la macchina in un prato pieno di fango, sul quale la sosta costava, criminalmente, 5 euro. La venue è né più né meno che una discoteca come ce ne sono tante, attrezzata con un palco sufficientemente ampio e ad altezza adeguata. La capienza è soddisfacente, adatta a concerti di media portata come quello di cui si sta parlando e pure l’acustica si rivelerà essere tutt’altro che disprezzabile.
Il traffico dell’ora di punta, unito a un surplus di veicoli dovuto alla follia consumistica natalizia, ci fa perdere i The Secret, dei quali avevamo toccato la bontà delle performance live in quel di Londra, il che ci attutisce la delusione per non averli ammirati di nuovo. In orario rispetto alle tempistiche previste, tocca allora agli A Storm Of Light darci il benvenuto.
A STORM OF LIGHT
Famoso per essere stato fino all’altro ieri il responsabile dei visuals dei Neurosis, dai quali si è recentemente separato proprio per concentrarsi sulla sua band principale, Josh Graham sa come creare le giuste ambientazioni per meglio veicolare il messaggio musicale della propria creatura. I filmati che scorrono sul fondale sono parte integrante dei live shows degli A Storm Of Light, riassumibili in rintocchi di campane a morto per l’umanità e la Terra e descrivibili come un ridondare ossessivo di massicciate chitarristiche, scompaginate da un drumming inquieto e reiterato. L’insistenza sulla pesantezza fa da sfondo a una certa “narratività” dei pezzi, sfiancanti e quasi privi di aperture meno oppressive. La focalizzazione sui filmati viene smorzata in parte a causa di luci troppo forti sui musicisti, che non si mostrano esattamente espansivi verso l’audience, piuttosto si dedicano anima e corpo allo strumento senza dare molto spazio all’interazione. Graham ringrazia giusto un paio di volte il pubblico, l’unico che cerca
Il contatto visivo con gli astanti è il bassista Domenic Seita, mentre la chitarrista ex Howl Andrea Black è un tutt’uno con la chitarra. Emozionalità e senso di catastrofe imminente sono evocati con forza dal quartetto, che mantiene alta l’attenzione delle prime file, intanto che la maggior parte del pubblico pensa ancora ai cazzi propri nell’attesa degli headliner. La seconda parte della mezz’ora a disposizione sposta il tiro su composizioni a più alto voltaggio, gli A Storm Of Light mostrano la loro faccia più diretta e strettamente metal dopo aver dato ampio spazio alle suggestioni post, attraverso un ventaglio di partiture assimilabili sia al suffisso metal che, in misura minore, a quelli core e rock. Show efficace, distante dalla foga esecutiva dei compagni di tour ma non per questo meno valido.
TOUCHE’ AMORE’
Le sfumature emo, normalmente, fanno rima con merda, e tutto sommato credo di restare nel politicamente corretto nel non evocare termini ancora più disgustosi. Poi arriva un gruppo come i Touchè Amorè, giovanissimo e a suo modo interprete di quella “emozionalità” che, al solo sentirla nominare, provoca tragici conati di vomito tra i metallari e i fan dell’hardcore, e scopri che almeno loro hanno trovato il modo di incanalare questo tipo di umori in una forma musicale entusiasmante. La breve carriera di questi cinque ragazzi, già molto amati in mezzo mondo, Italia esclusa per i soliti ritardi nel recepire quello che le accade attorno, potrebbe subire una decisa impennata grazie al tour con i Converge, tanto sono contagiose le canzoni proposte e la veemenza con cui le sputano addosso. Definiti comunemente come screamo, i nostri scorrazzano sul filo sottile tra hardcore/punk schizzato figlio dei Converge meno deviati e più umani, i Refused più accessibili, e la positività dell’hardcore melodico, con ampio uso di ritornelli di facile presa e l’inserimento di improvvisi momenti di quiete. I Touchè Amorè hanno energia da vendere, non sanno cosa voglia dire star fermi, il singer Jeremy Bolm è spesso sul pubblico e fa cantare chiunque riesca ad avvicinarsi al microfono. C’è sempre un pizzico di imprevedibilità in un disegno complessivo rivolto alla forma canzone, è facile che un pezzo prenda una direzione frenetica per poi ritrovarsi a celebrare un ritornello trascinante e a suo modo easy listening, anche se il cantato rimane prettamente hardcore. Ancora più che la validità della proposta, è la simbiosi creata col pubblico che impressiona; i Touchè Amorè sono fatti per stare sul palco, non hanno freni e si mostrano loro per primi completamente irretiti da quel che suonano, e questa sensazione non può che trasmettersi completamente all’audience. Tra le prime file sono in molti coloro che conoscono a menadito le canzoni del gruppo e danno man forte a Bolm, sempre sorridente, invasato e in pieno dominio delle vocals. La ricerca del contatto fisico deborda sul finire dello show, quando su “Honest Sleep” l’inesauribile singer si butta in mezzo alla folla e canta, a strumenti ormai zittiti, il refrain sorretto dalle mani protese dei fans, che si sgolano per fargli sentire tutto il loro supporto. In trenta minuti i cinque buttano fuori ettolitri di sudore, si dimenano con furore agonistico galattico e sprigionano una dedizione totale alla musica che convince senza titubanza: siamo contenti di averli scoperti.
CONVERGE
Sappiamo cosa attenderci, meno di un mese fa siamo riusciti a vederli all’opera per la prima volta in un Koko Club gremito in quel di Londra, dinnanzi a un pubblico colto da raptus orgasmici e in preda a un fuoco interiore che non faceva stare fermo nessuno. Una performance da brivido che volevamo rivedere con la stessa bramosia di chi cerca acqua nel deserto dopo una settimana in preda all’arsura. Capisci che sarà una gran serata quando a pochi minuti dal via vedi Bannon saltellare per il palco come un pugile in procinto di salire sul ring, il cappuccio sulla testa lo mette ancora più nel ruolo, le pupille guizzanti tradiscono l’attesa febbrile con cui si rapporta ai live. Niente preamboli né intro pompose salutano la selva di granate che ci travolge con “Heartache”, la breve opener di “No Heroes”. Non scoppia la macelleria di corpi che fa da normale contorno alle performance dei Converge, il pogo si concentra in uno spazio ristretto a ridosso delle transenne, l’effetto apertura del Mar Rosso al passaggio di Mosè non si crea, probabilmente a causa di una eccessiva presenza di fighetti che giocano a fare gli alternativi, tutti con l’accessorio al posto giusto e barba e capelli impeccabili. Bannon va subito dai fans delle primissime file, li fa cantare e si fa toccare, vuole essere vicino a loro il più possibile. Le urla belluine che lo contraddistinguono dal vivo sono prodotte con meno variazioni sul tema, le clean vocals saranno pure sporcate rispetto alle versioni in studio, ma un grido allo stesso tempo così umanamente disperato e alieno, raggelante, pazzoide non lo riproduce nessun altro. Funzionano benissimo anche Nate Newton e Kurt Ballou alle seconde voci, così che l’aggressione sonora è sempre feroce e disturbante come si conviene. Il big bang sonoro percuote in ogni dove, è tanto eccessivo, spropositato e ultratecnico che non si sa se spezzarsi il collo e tutto il resto per seguirne l’andamento iper accelerato oppure è meglio restare in estatica ammirazione. La mente e il corpo faticano ad assimilare tutta la follia destabilizzante, l’impulsività, la tragicità epica di canzoni spesso cortissime ma ricche di ogni ben di dio, tanto fulminee quanto dense di vita e complicatezze strumentali sparatissime. I quattro rifiatano poco, si dimenano come ossessi, si vede che godono di quello che suonano, che vivono solo per stare davanti a un pubblico e fargli toccare un empireo emozionale difficilissimo da ritrovare altrove. I nostri si concentrano, prevedibilmente, su “All We Love We Leave Behind” e danno molto risalto anche al penultimo “Axe To Fall”, mentre sono praticamente assenti i riferimenti al periodo pre-“Jane Doe”, la pietra miliare spartiacque della loro carriera e dell’hardcore moderno. Del capolavoro-icona del 2001 sono proposte la deflagrante “Concubine”, “Bitter And Then Some” e “The Broken Vow”, posta appena prima del bis. L’onda lunga di quel lavoro è palese nello sfondo scelto per accompagnare l’esibizione e nell’artwork usato per il manifesto del tour, che vede riproposto il giovane volto femmineo entrato da tempo nell’immaginario collettivo dei fans. L’interpretazione della band è magnifica sia nelle tonalità sfregiate dei pezzi psicotici ed estremisti, resi benissimo anche nelle parti più epiche e alte che esaltano la sensibilità musicale del gruppo, sia nella porzione centrale della set-list dedicata alle partiture più cerebrali e oblique, davvero stordenti visto il contesto vorticoso in cui sono inserite. Ogni stacco, cambio di tempo, incontro-scontro strumentale è suonato alla perfezione, la cura del dettaglio si sposa benissimo all’urgenza hardcore. La somatizzazione della musica raggiunge vertici clamorosi in tutti i protagonisti, il singer assume qualsiasi posa e mimica possiate immaginare, neanche una camicia di forza riuscirebbe a trattenerlo. Interrotte le ultime note di “First Light”/”Last Light”, scelte per l’obbligatorio bis, ci assale una sensazione di appagamento e di benessere indescrivibile, consapevoli di aver assistito al concerto di quella che è probabilmente la migliore live band del pianeta.