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Impaled Nazarene + Stillness Blade + Warmblood

Pasqua e Impaled Nazarene, una coincidenza ripiena di spiritualismo e raccoglimento estatico. Gli screanzati finnici sono fra gli act extreme metal più amati d’Italia, ogni tour dei nostri viene baciato da qualche data nello Stivale, anche al di fuori delle rotte seguite normalmente dai gruppi stranieri. Mika Luttinen e compari sono imprescindibili in sede live, l’isteria collettiva in cui ti trascinano va vissuta per forza se si ama il metal estremo, così che il giorno di Pasqua, in occasione della venuta degli ubriachi eroi scandinavi nella confortevole Rock’n’Roll Arena di Romagnano Sesia, non possiamo far altro che muovere il culo e andarli a vedere. Prima dell’Apocalisse crust/black/rock’n’roll degli headliner, un assaggio del roster Punishment 18, con tre ensemble italiani desiderosi di non sfigurare al cospetto dei Maestri.

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I Grievers, freschi freschi del primo cd Reflecting Evil, si trovano a suonare in un locale con ben poche presenze umane al suo interno, e con ancora meno voglia di prestare attenzione a quello che succede sul palco, visto che quasi tutti rimangono a sbirciare tra i dischi in vendita o a tracannare alcolici quando il quintetto varesino dà il via alle danze. Purtroppo per loro, l’interesse va scemando dopo il primo minuto e mezzo di esibizione: il senso di deja-vu opprime pressoché all’istante, a causa di un riffing derivativo, un misto di thrash moderno e melodic death manieristicamente compresso, di ritmiche groovy stantie e vocals a cavallo tra hardcore e death, uguali a milioni di altre. Persino le movenze on-stage, il modo in cui i musicisti fanno headbanging, come imbracciano gli strumenti, le mimiche del volto, sembrano mutuate da qualsiasi gruppo che si cimenti in sonorità similari, senza che i Grievers riescano a ritagliarsi uno spazio tutto loro; mai un momento, uno solo, che il gruppo lasci intravedere la volontà di distinguersi dalla massa. Non metto in discussione l’impegno profuso, la passione, l’onestà della band, ci mancherebbe, ma non c’è mezzo sprazzo di vitalità nella prova dei ragazzi, che anche nel modo di rapportarsi al pubblico hanno tanto da lavorare, visto che non riescono a creare un briciolo di empatia con chi ascolta. Mi spiace dirlo, ma la prima esibizione della serata scorre via in una noia mortale.

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Chi arriva successivamente alza il tiro e desta un po’ di interesse tra coloro che sono accorsi questa sera. I Warmblood scuotono il Rock’n’Roll con il loro brutal death dai tratti inopinatamente melodici e dall’approccio multiforme da un pezzo all’altro. Il gruppo può contare su due vocalist, il barbuto Marco Lari e il chitarrista Giancarlo Capra, che interpretano il growl con leggere ma percettibili differenze: il primo è più istintivo e animalesco, il secondo ha il controllo e l’autorevolezza di un David Vincent o di un Glen Benton, così che l’uso delle due voci non assume solo rilevanza nel dare maggior brutalità alla musica, ma serve anche per disegnare atmosfere ogni volta differenti. Lari si muove come un King Kong impazzito, girando in cerchio tra i due chitarristi (il basso è campionato), lasciando spesso il controllo delle operazioni all’altro singer e ai prolungati effluvi solistici, debordanti rispetto alla linea guida delle canzoni. La vitalità delle sei corde porta le due asce a imbastire assoli molto melodici, ad ampi tratti vicini al gusto neoclassico, distanti anni luce dal death e parenti stretti dei virtuosismi dei guitar-hero. Mi pare che si debba ancora trovare l’equilibrio giusto all’interno delle song, per ora un filo slegate, ma le doti tecniche e la sicurezza con cui i Warmblood padroneggiano i pezzi fa perdonare qualche prolissità di troppo. Al di là delle prodezze costruite attraverso la velocità con cui le dita vanno sul manico della chitarra, sono da rilevare i tentativi di affrancarsi dal death metal propriamente detto, a favore di puntate nel thrash moderno e nell’hardcore evoluto, che non arrivano solo in qualche secondo dei singoli brani e finiscono per dominare intere canzoni.
In definitiva, i Warmblood lasciano dietro di sé una discreta impressione.

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Classico power trio alla Venom per gli Stillness Blade, fuori da poco col secondo full-lenght Break Of The Second Seal – The Eternal Damnation. Freddi e ostili al punto giusto, i tre ci lanciano nel consueto tunnel degli orrori che il vero death metal deve saper proporre. La cappa di malsano di cui il genere si fa portatore viene messa bene in primo piano, la band pesta il piede pesantemente sull’acceleratore e si beneficia in questo di un drumming articolato, moderatamente poliritmico, che apre i pezzi ad atmosfere oblique e non per forza ben definibili. Il gruppo sa essere diretto senza rinunciare a qualche passaggio più tecnico, non abbandona la brutalità per un istante, lascia sprazzi d’azione a una serpeggiante vena black, che mischia le carte e non dà punti di riferimento su quale sia la vera rotta della band nel mare magnum del metallo odierno. Nonostante la buona potenza di fuoco espressa, gli Stillness Blade sono alla lunga fin troppo asettici e chirurgici, suonano bene, eppure si fatica ad accendersi davvero per la loro musica. Impressione personale, si intende, perché il loro lavoro lo sanno fare e non si accodano supinamente ai clichè più in voga nel metal estremo. Per loro, quindi, una prova positiva, seppure migliorabile.

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In tempo per stoppare drasticamente la resurrezione della mattinata, gli Impaled Nazarene prima di manifestarsi scelgono, molto scenograficamente, di mettere il sipario dinanzi al palco, manco stessero per recitare Shakespeare, e lo fanno cadere giusto in corrispondenza dell’entrata in scena. La formazione del tour a supporto di Road To The Octagon è quella a quattro elementi che dura ormai dal 2007, ovvero dal precedente Manifest. Mikael “Arkki” Arnkil al basso si presenta coi (pochi) capelli ritti nella consueta cresta, il chitarrista Tomi UG Ullgren se ne sta leggermente più schivo sulla destra, al centro campeggia la sagoma ghignante, e leggermente più sobria di quanto ci si aspetti, di Mr. Mika Luttinen.
In dieci minuti, la carneficina ha già assunto proporzioni galattiche: la velocità esecutiva è spropositata, basso, chitarra e batteria si sfracellano tra di loro come in un autoscontro di vetture guidate da ubriachi, lanciate le une contro le altre per il semplice gusto di farsi male. I riff, assolutamente indistinguibili e minimali, si affastellano con una foga scriteriata, mentre la batteria è perennemente lanciata a ritmi insostenibili. Mika urla scoppiando di isteria, non è uno screaming, non è un growl, è pura lacerazione uditiva, un qualcosa che manca di termini di paragone in campo metal. A Romagnano la veemenza esecutiva risalta al pieno della propria crudeltà, l’acustica è di quelle buone e, sommessamente, osiamo dire che sentiamo pure qualche finezza in alcuni pezzi recenti del combo nordico. Gli ultimi album a firma Impaled Nazarene hanno qualche andamento vagamente melodico e assoli suonati con criterio, stasera brillano nell’armoniosa cagnara grazie all’ispirazione di Ullgren, che riesce a dare sfogo ai solismi soprattutto nei (tanti) brani estratti da “Road To The Octagon”, saccheggiato a piene mani: Execute Tapeworm Extermination, Rhetoric Infernal, Tentacles Of The Octagon sono solo alcune delle song proposte dall’ultimo lavoro . Passato e presente fanno poca differenza per chi, come i finlandesi, accusa pochi cali di tono nel corso della propria carriera, e se le canzoni durano tre minuti l’una ci si può permettere di proporne a vagonate da ogni periodo storico. Per quanto il pubblico piemontese non risponda con la scriteriata non curanza dell’incolumità fisica come accade in altre zone d’Italia, la band non accenna a porsi freni e macina musica con una lucidità e un’assenza di pause di chiara marca motorheadiana. Velocità, velocità e ancora velocità, prendere o lasciare, arrivano proiettili a pioggia dallo stage e, nell’incertezza, si va su quelli a effetto più letale. Si conteranno due mid-tempo su una trentina di brani…
Le canzoni a taglio leggermente rock’n’roll danno un’ulteriore scossa al turbamento deliquescente e innestano l’ottava marcia a un concerto che, attorno ai cinquanta minuti di durata, è già da tempo a regimi da fusione del nocciolo. Let’s Fucking Die e Ghettoblaster, introdotta da Luttinen che fa finta di annunciare una canzone recente, per poi virare sul passato, scatenando urla di approvazione, fanno muovere finalmente qualche corpo, creando un po’ di baraonda nel pit semi-vuoto. La parte conclusiva dello show vive di un crescente senso di incredulità per i minuti che scorrono via senza che la band accenni a dare la buonanotte e vede snocciolati i classici imprescindibili, tenuti in caldo per incendiare alla massima temperatura proprio sul finale. Sale sul palco anche il Colonnello, leader dei Frangar, per intonare i cori nel corso degli ultimi pezzi. Prima di andare dietro le quinte viene sparata The Horny And The Horned, al rientro molotov a piè sospinto: Armageddon Death Squad, Sadhu Satana e la beata ignoranza di Total War – Winter War. Fradici di sudore, ce ne torniamo a casetta dopo quasi un’ora e mezza (avete letto giusto…) di morsi alla giugulare: dal vivo, gli Impaled Nazarene sono una certezza assoluta, se non li avete mai visti live dovete colmare questo vuoto il prima possibile.