Quante band esistono ad oggi che miscelano il glorioso stoner dei tempi che furono con elementi più pesanti come lo sludge, l’hardcore e il metal? Tolte anche le superstar come Baroness e High on fire che non sbagliano un colpo ne rimangono comunque una marea, al punto che ogni gruppo che suona questo tipo di musica psicotropa cerca di inserire un qualche elemento personale che li contraddistingua dalla massa.
Stranamente e apparentemente senza una logica, i veterani 16 decidono invece di cavalcare l’effetto “Hunter”, ovvero di uscire con un album privo di eccessivi orpelli che vadano ad arricchire la struttura base delle canzoni. Piccolo problema. I Mastodon venivano da un album monumentale e definitivo quale “Crack the Skye”, ci stava tutta la loro voglia di registrare qualcosa di più semplice e diretto, quasi un divertissement. I californiani invece nella loro lunga e tribolata carriera non hanno mai registrato un capolavoro che si definisse tale, ma si sono sempre dimostrati delle validissime seconde linee della scena sludge/stoner. Capirete quindi la mia parziale disapprovazione nell’ascolto di “Deep cuts from dark clouds”, album in cui la struttura delle canzoni viene spesso ridotta all’osso, costruita su un paio di riff per brano e strutture ritmiche spesso molto simili tra di loro. Il problema è che se i riff sono buoni la canzone si ascolta anche volentieri, ma in alcuni casi sono così ripetitivi e monotoni che lo skip diventa quasi un obbligo. Peccato che i 16 abbiano deciso per questa struttura monolitica dei brani, perché il lavoro svolto dal bassista Tony Baumeister è invece encomiabile. Il suono di basso è caldo come una colata lavica, ben supportato anche dalla batteria, che rimane sì spesso ancorata su monotone strutture mid-tempo, ma dona varietà grazie a rullate e tecnicismi assortiti. Come già detto in precedenza, il quartetto californiano purtroppo decide di privare molti dei brani di quei passaggi strumentali ad ampio respiro che fanno la fortuna di molti dei loro colleghi. Questo purtroppo rende “Deep cuts from dark clouds” un album quanto mai omogeneo, compatto, tirato oltre ogni ragionevole necessità, e di conseguenza abbastanza indigesto. Pochi i momenti che riescono a distaccarsi da questo ripetersi infinito di riffoni su riffoni e a rendere veramente memorabili i brani, e guarda caso coincidono con i passaggi in cui si tira un po’ il fiato e viene lasciato spazio anche al basso. Parlo della centrale “Ants in my bloodstream”, in cui un azzeccato e suggestivo arpeggio di chitarra ed il giro di basso si rincorrono in un passaggio finalmente suggestivo. Ancora meglio la conclusiva “Only photographs remain”, brano sludge puro in cui i 16 danno prova di riuscire a creare alla perfezioni atmosfere oppressive ed estranianti, la prova che rallentando un po’ i tempi si riescono ad ottenere risultati decisamente buoni in questo genere. Non avevo precedentemente affrontato il tema della voce, che purtroppo è un’altra cosa che ho faticato a digerire, costantemente filtrata al punto da risultare artificiosa e a tratti fastidiosa.
Non un album completamente da buttare via nel suo complesso, ma una decisa involuzione per un gruppo dalla carriera ventennale come i 16. Per mettersi al livello delle nuove leve bisogna cambiare passo, speriamo che questo sia solo un album di transizione e che col prossimo i californiani tornino su buoni livelli.