Ottavo capitolo per la storia degli Architects. Un capitolo intenso, importante, delicato e caratterizzato da quella non così piccola nota amara che segnerà per sempre la storia della band: “Holy Hell” è infatti il primo album del gruppo senza Tom Searle, chitarrista e fondatore storico del progetto, che purtroppo ha perso la sua battaglia contro il cancro. Poco dopo la sua scomparsa nell’Agosto del 2016, la band scrisse e pubblicò “Doomsday”, il primo singolo che avrebbe composto il nuovo album. Una risposta forte e commovente quella di Sam Carter e compagni, che non si sono piegati neanche davanti alla morte di uno dei padri fondatori del progetto, dimostrando di avere un grande cuore, passione infinita e coraggio da vendere. Dopo tanta attesa, finalmente l’album è stato pubblicato per intero. In molti avevano già cominciato a pensare che “Doomsday” fosse un singolo unico pubblicato per rendere omaggio a Tom. Ma la pazienza è la virtù dei forti, e la band ha dimostrato di saper rispondere a dovere. Analizzando il disco musicalmente però, pare che gli Architects abbiano fatto un passo falso: pubblicando subito “Doomsday”, che è a mani basse il pezzo più interessante e affascinante del disco, hanno creato delle aspettative altissime per il resto dell’album, che però non è pienamente al passo del primo singolo. Certo, è un lavoro pieno di canzoni spettacolari, soprattutto i singoli “Hereafter” e “Royal Beggars”, o anche pezzi come “Damnation” o “A Wasted Hymn”. Tutti grandi capolavori, che però purtroppo vivono nell’ombra di una canzone che la maggior parte del suo fascino al messaggio molto toccante che racchiude in sé e al periodo molto delicato nel quale è uscito. Tornando a parlare un’ultima volta dei singoli, li abbiamo citati tutti meno uno: “Modern Misery”. Un singolo che inizialmente fece storcere un po’ il naso a parecchi ascoltatori, visti i precedenti brani usciti. Con l’uscita del disco però siamo riusciti facilmente a inquadrare il pezzo in un suo spazio ben preciso all’interno dell’album, notando che effettivamente si adattava alla perfezione al lavoro complessivo.
Ma veniamo dunque a una delle canzoni solitamente più discusse che compongono un disco: la title track. “Holy Hell” in realtà è abbastanza anonima all’interno dell’album. In piena linea con quella che è la produzione dell’intero progetto, non dimostra nessun dettaglio particolarmente degno di nota, se non il fatto che sia un ottimo pezzo in pieno stile Architects capace di farti spaccare il collo con i suoi breakdown ai quali la band inglese ci ha sempre abituati.
Passiamo dunque ai bocciati: in primis “Death Is Not Defeat” e “Mortal After All”. Due brani che in realtà presentano sonorità interessanti, ma sono troppo simili tra loro e non presentano nessuna particolarità. Il che ci più stare: alla fine serve a connotare e inquadrare meglio lo stile di una band.
Ma in questo caso la produzione è già parecchio omogenea di suo, è aggiungere ulteriormente altra omogeneità potrebbe portare a un appiattimento generale del disco (fortunatamente però non è questo il caso). Bocciata anche “The Seventh Circle”: l’idea di partenza di creare un pezzo breve ma violento non era male, ma il risultato non è esattamente all’altezza.
Si può quindi dire che sia un album altalenante? Sotto certi aspetti forse sì, ma (come detto in precedenza) la produzione è parecchio omogenea. Quindi sì, sicuramente ci sono pezzi che oggettivamente sono a un livello più alto rispetto ad altri, ma allo stesso tempo i suoni sono compatti, le strutture molto solide e lo stile sempre ben definito. Tutto ciò rende l’album difficile da frazionare, ma invitante per l’ascoltatore da apprezzare fino in fondo.