Perché? Perché una band decide di snaturare il proprio stile per perdersi dentro meandri che non gli competono? Ok, non saltiamo di palo in frasca ed andiamo per gradi. Quattro anni fa, una giovane band californiana chiamata Black sheep wall pubblica per un piccola etichetta un disco fresco, intrigante, a tratti geniale chiamato “I am God songs”.
Oggi quella band non è più così giovane, ha cambiato qualche elemento nella line-up, ma ha un contratto con un’etichetta decisamente più grande, la Season of Mist, che gli garantisce sicuramente un budget maggiore ed una visibilità internazione ai massimi livelli. Il problema è che i Black sheep wall sembrano avere perso per strada gli elementi che li caratterizzavano come una band dalla forte personalità, ovvero quel saper aggiungere ad una base sludge elementi prog, doom ed addirittura metalcore che li avevano fatti additare da un parte della critica come i nuovi Neurosis. Oggi i californiani hanno tolto la maggior parte dell’innovazione dalla loro musica, rendendo di fatto “No matter where it ends” un disco sludge di una pesantezza e monoliticità uniche. Per qualcuno tutto ciò potrà anche essere un bene, ma sostanzialmente siamo di fronte a 45 minuti di una omogeneità a tratti imbarazzante, con poche soluzioni degne di nota a spezzare la routine fatta di ritmi lenti e soffocanti, riffoni granitici e growl potente ma monotono. Lungi da me pensare che in California tutti debbano suonare punk-rock (in fondo anche Xasthur è di quelle parti!), ma viene da chiedersi cosa debbano avere passato questi ragazzi per partorire un album così disperato e soffocante. Questo di per sè non sarebbe un problema, ma lo diventa dato che in fondo le canzoni sono veramente troppo simili tra di loro, differenziandosi tra loro sostanzialmente solo nella melodia dei riff, mentre il cantato procede con la stessa identica cadenza per tutto il disco. Questo è un peccato perché il timbro di voce e l’approccio vicino all’hardcore potenzialmente sarebbero interessanti. Altro grosso peccato è quello di insistere esageratamente sui tempi lenti, che, senza un sano contraltare di qualche buona scheggia impazzita al fulmicotone, risultano semplicemente piatti e noiosi. Anche se c’è da dire che uno degli episodi meglio riusciti del disco è “Personal prophet”, probabilmente il brano più lento dell’intero album, in cui lo sludge si mescola perfettamente col doom creando un’ottima atmosfera. Non male anche “Black church”, soprattutto per una certo uso della melodia della chitarra che dona un pelo di varietà al brano, e “Cognitive dissonance”, pezzo di rottura improntato su dissonanze vicine alla drone music. Tutto il resto è ripetitivo, superfluo, inutile. Ci sono decine di band che sanno fare sludge a livelli eccellenti, Eyehategod, Crowbar ed i pur sopravvalutati Kingdom of sorrow giusto per citare i più famosi.
I Black sheep wall è meglio che si lascino alle spalle questo brutto passo falso e si rimettano all’opera, per tornare sulla buona strada c’è tanto da fare.