Chi si pone l’obiettivo di realizzare un concept album deve avere ben chiaro cosa questo comporti…basare un’intero platter su una storia unica fa enormemente figo, specialmente per quei gruppi che nascondono una velata magia, ma spesso non si considera tutto il lavoro monumentale a cui bisogna star dietro, sia in termini narrativi che in termini musicali…e ‘far quadrare il cerchio’ è un’operazione non adatta a tutti.
Lo sanno bene i nostrani Fleshgod Apocalypse che, per il nuovo album, hanno scelto di portare i fans in una corte reale…”King”, quarto genito del quintetto, è la summa definitiva di quanto partorito dal 2007 ad oggi, riuscendo ad abbinare un songwriting complesso ad una pacata isteria sinfonico/corale di non facile assimilazione. Il death metal tecnico di base riuscirebbe a vivere anche in solitaria, dato lo spessore strutturale imbastito, ma grazie ad un certosino lavoro di arrangiamento sfocia in una visione innovativa che non ha nulla da invidiare agli act più blasonati nel genere.
La produzione è una fortezza di montagna, incastonata roccia dopo roccia per mantenerne equilibrato il sostentamento, mentre le performance mettono in risalto sia i caratteri individuali dei nostri (Tommaso Riccardi e Francesco Paoli sopra a tutti) sia la feconda coesione sapientemente costruita in anni di durissimo lavoro. Il mixing e il mastering rappresentano i primi cavalieri del regno, invisibili ad un primo approccio ma colti e indispensabili per il benessere del regno.
“Marche Royale” cala gustosamente il ponte levatoio per lanciarci in pieno viso capitoli come “In Aeternum” e “A Million Deaths”, capaci di travolgere anche il soldato più impavido. “Healing Through War” campeggia sovrana nelle nostre orecchie mentre “Mitra” e “Gravity” ci pongono al cospetto di arrangiamenti ornamentali degni di una nobile casata. I veri highlight risiedono nella variopinta “The Fool”, nella più soave (passatemi il termine) “Cold As Perfection” e nell’immortale “Paramour (Die Leidenschaft Bringt Leiden)”, dove i Fleshgod Apocalypse mostrano quanta passione possa scaturire dal genere estremo, mentre da “And The Vulture Beholds” e “Syphilis” ne usciremo con il collo rotto ma con la voglia di ripremere play sul lettore cd. La titletrack, posta in chiusura, ci aiuta a capire la differenza tra una band che picchia intelligentemente e una che picchia senza cognizione.
Al giorno d’oggi è difficile trovare band estreme che abbiano la voglia (e la forza) di sperimentare e di allontanarsi dai cliché senza essere marchiati come ‘traditori’. “King” è un disco dalla forza interiore ponderata che porta ai massimi livelli uno degli act italiani più interessanti degli ultimi anni…e ruffianamente permettetemi di aggiungere ‘lunga vita al re’.