Le belle giornate come ogni anno stanno arrivando, finalmente è ora di tirare fuori lo skate e buttarsi in qualche piscina vuota con l’ultimo album dei Municipal Waste sparato a mille nel walkman! Come dite? Non siamo più negli anni 80? Forse il resto del mondo sì, ma il quartetto americano continua a vivere il proprio sogno fatto di thrashcore, tematiche horror in stile Troma e tonnellate di divertimento.
Io ero il primo a temere che il passaggio da Earache a Nuclear Blast avesse in qualche modo potuto cambiare lo stile di Ryan Waste e compagnia bella, ma i virginiani non hanno spostato di una virgola il loro sound. Se si dovesse a tutti i costi notare un step evolutivo in questo “The fatal feast”, sarebbe quello di avere spostato un pochino l’ago della bilancia più verso l’hardcore grazie a un drumming secco e tirato e la presenza massiccia di cori che irrobustiscono parecchi ritornelli. Il resto è tutto lì, esattamente come ve lo ricordavate, canzoni sparate a mille in cui Tony Foresto si sgola come un ossesso sopra riff velocissimi, non troppo articolati ma dall’impatto assicurato. Ai Municipal Waste non potrebbe fregare di meno di essere nominati il gruppo metal più tecnico del pianeta, il loro obiettivo è semplicemente divertire e scatenare headbangin’ e pogo sfrenato ai concerti. “The fatal feast” sembra essere stato scritto apposta per scatenare il delirio dal vivo, per questo si trovano pochissimi assoli, brani brevi e diretti dal ritornello facilmente memorizzabile. I cultori del metal più raffinato ed intellettuale troveranno indubbiamente i Municipal Waste rozzi e cafoni, ma il loro intento è proprio quello e lo fanno ormai da più di dieci anni con una coerenza indiscutibile. Dovendo parlare dei brani più riusciti dell’album, le mie preferenze vanno a quelli in cui si sono avvalsi della collaborazione di due soggettini che stavano cadendo ingiustamente nel dimenticatoio. John Connoly dei Nuclear Assault dona la sua voce a “Unholy abductor” e fa capire al mondo cosa vuol dire cantare veloce il thrash. Una vera e propria scheggia di appena un minutino in cui John va così veloce che sembra quasi rappare e dona al brano una carica incredibile. Il secondo featuring è Tim Barry dei misconosciuti ai più Avail (band di ruvido punk-rock che negli anni 90 ebbe un filo di successo) che regala a “Standards and practices” un bellissimo ritornello melodico che, una volta entrato in testa, non vuole saperne di andarsene. Gli altri brani non sono da meno, decisamente coinvolgenti e adrenalinici; in effetti la cosa migliore dell’album è di essere sostanzialmente privo di filler, quindi gradevole per quasi tutta la sua interezza. Le cosa che un po’ mi ha fatto storcere il naso è invece la registrazione. D’accordo che il quartetto abbia deciso di puntare su dei suoni che cerchino di ricreare il più possibile quello che può essere l’esperienza live, ma c’è un tale dislivello tra gli strumenti da risultare sgradevole. Mentre il basso viene giustamente messo in primo piano, anche perché la prestazione di Land Phil surclassa di una spanna quella di tutti gli altri, purtroppo la batteria viene relegata in un angolo, privando i brani di quell’impatto che un pizzico di volume in più gli avrebbe conferito.
Comunque tutto questo nulla toglie al valore assoluto di “The fatal feast”, che rimane decisamente un buon album, diretto ed onesto col trademark dei Municpal Waste in tutto e per tutto. Per quanto la freschezza e l’effetto sorpresa degli esordi ormai siano irrimediabilmente perduti, chi ama il quartetto della Virginia continuerà a farlo senza porsi troppi problemi. Chi invece ha un po’ di spirito critico comincerà a chiedersi quanti album in serie riesca a sfornare una band prima di perdere credibilità.