Tante volte, ascoltando un disco, ci si sofferma su quali siano state le basi cultural/musicali dell’artista che lo ha inciso…se si ha una cultura medio-buona in campo scovarle sapientemente è facile, ma l’errore in cui non incappare consta nel famigerato paragone; capire la natura del background è importante alla stessa stregua dell’assaporare il modo in cui questo sia stato rielaborato e personalizzato.
E come sempre, gli Opeth riusciranno a scovare un esercito di persone che non li capirà. Se già con il predecessore di tre annetti fa (“Heritage”) avevano palesato la propensione alla melodia, con questo “Pale Communion” il concetto viene ribadito e reso più carpibile. Le otto songs attraversano i vari mondi confinanti con il prog evitando di richiamare le origini death metal del sestetto, portando in auge una band che a proprio modo sta ‘ricaricando’ un genere difficile. Forse, anche in questo, è straordinario osservare come Mikael Åkerfeldt riesca a coinvolgere i colleghi nelle proprie visioni musicali, traendo da ciascuno il massimo della verve arrangiativo/esecutiva.
Seguiti dall’ormai ‘guru’ Steven Wilson in consolle, “Pale Communion” è un disco estremamente moderno nonostante il songwriting abbracci il prog degli anni 70. Le performance sono paurosamente ispirate e imponenti, dove la voce del cantante svedese riesce a districarsi grazie alla tipica vena sofferta. I suoni sono limpidi e dal grande sapore ‘live’, mentre l’attività in consolle ci consegna un prodotto infinitamente vario di colori e sfumature, ma sorretto da un tiro energico che mette i brividi alla schiena.
Canzoni come la opener “Eternal Rains Will Come” e la stralunata “Voice Of Treason” varebbero da sole il prezzo del cd, così progressive e altalenanti nelle strutture da far venire il mal di mare. In “Elysian Woes” e “River” risiede un certo amore per le sezioni care al prog melodico dei primi anni 70, mentre “Goblin” va a bussare alla porta della fusion meno disparata. Paradossalmente, la palma d’oro viene consegnata alla track più semplice del contesto, ovvero “Cusp Of Eternity”, dove la prevedibilità del songwriting permette una maggiore godibilità.
Gli Opeth, specie per i veri fans, rappresentano da sempre un cruccio. In un momento in cui ‘far le pulci’ sembra essere diventato una moda, trovarsi al cospetto di un disco irriverente come “Pale Communion” non può far altro che sorridere, mentre con il dito per schiacciare PLAY ennesimamente. Disco colto.