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OPETH – Watershed

“il naufragar m’è dolce in questo mare “

In lontananza, tra un paesaggio di solitarie e brulle rupi dimenticate dal tempo e della civiltà, si scorge timidamente uno specchio d’acqua, compensati da cinerea bruma densa e fumosa. Saremo guidati senza timore nei meandri della palude soffocante e desolante , la quale funge da spartiacque tra il mondo artificiale e reale della riva del pantano e il mondo dei sogni e degli incubi, all’interno dello stagno,all’interno del nostro subconscio più intimo. Si ode soltanto lo stormir del vento tra gli alberi ed risuona una cerulea melodia che ha un nome

…Opeth.

Gli Opeth sono sempre stati caratterizzati da una dialettica complessa. Nati nel 1990 a Göteborg, in Sveza per volere della caustica ed incipiente genialità di Mikael Åkerfeldt, Anders Nordin e David Isberg,che si ispirarono per il moniker ad un nome (Opet appunto) tratto da un romanzo di Wilbur Smith,che significa letteralmente “Città della Luna”. Essi produssero negli anni successivi ben 4 blandi Platter, uno più meritevole dell’altro , sposando le lapidee vertigini del Death Metal con contorni degli epigrammi limacciosi del Progressive, osannati all’unisono dagli addetti ai lavori, ma ancora ingiustamente ignorati dalla grande plebe. Ma tutto cambiò nel 2001 con il rilascio di“ Blackwater Park”, dove la farfalla , abbandonato lo status arrugginito di creatura di Culto esce finalmente dal bozzolo degli ascolti raccolti per proiettarsi verso un più largo consumo, con accese le luci della ribalta. Gli Opeth divengono all’improvviso una specie di istituzione, che non puoi non ammettere di non conoscere, sdoganando il Metal anche in contesti lontani da quello tradizionale (vedi il contratto con la scuderia Roadrunner) rei di aver creato negli anni un stile unico con una propria identità ben definita. Ad ogni nuova Relase l’attesa si fa sempre più spasmodica e non sfugge a questa logica neanche “Watershed”, che si candida al titolo del disco più atteso del 2008. “Watershed” come recita lo stesso titolo, è un vero e proprio spartiacque con la precedente carriera dei principi nordici, che dovrebbe inaugurare un nuovo ciclo. Infatti L’ironia della sorte ha voluto che sia Martin Lopez sia Peter Lindgren, con una decisa retromarcia abbandonassero il mondano gioco dei ruoli, il primo a causa si una crisi psicotica causata da Tour martorianti, mentre il secondo non si fa più portavoce della loro arguta ideologia, meritandosi un posto d’onore nei conterranei Arch Enemy. “Watershed” è un contraddittoria e volubile favola in sette capitoli, un dolce e terribile liquore che si nutre della ormai collaudatissima cerimonia degli opposti. Le loro radici stanno su entrambi i fronti, ovvero la psichedelia malata del Prog e l’irruenza famelica e vulcanica del Death Metal degli esordi, ma il peso della bilancia tende progressivamente verso la loro iniqua e mai troppo velata infatuazione per la musica dei Seventies , memore di act quali King Crimson e Pink Floyd, che va tutto a vantaggio della creazione di gradazioni calde, lente e vellutate,senza ormai più lasciare eredità delle loro boreali origini Svedesi. Emerge dalla superficie la sognante e dimessa forma timbrica adottata da Mikael Åkerfeldt che accentua lo scintillante il senso di poesia incentrato su impetuose arie e toccanti e remunerative sfumature suadenti. Un Carillon tragicamente perito risveglia, come una libellula fuggevole , mediante la cromatica ipnosi, l’ universo anarchico ed insano dei miraggi onirici e dell’inconscio con trapianti urticanti di gassose passioni,desideri inconfessabili, amori mai dimenticati, ferite mai rimarginate, che sono banditi dalla mente essendo la realizzazione aspirazioni inibite.
“Coil” è una doccia gelata perché è l’estremizzazione della ultima inclinazione allucinogena stilistica ,della quale traduce in atto i principi. Uno sposalizio che introduce elementi inediti, come la breve durata e la leziosa grazia di una voce femminile, quella di Nathalie Loriche. Una esercebata ballad acustica ricca di dilatazioni arpeggiate. “Heir Apparent” può essere definito un riecheggiamento trafugo, una cavalcata impetuosa dove vi si infrangono contro una schiaffeggiante passionalità, qualche interessante variazione Doom, ma anche un crogiolo di sensualità e di intensità emotiva inarrivabile per l’ 70 % degli altri Ensable Metal del globo, i quali stanno ormai cadendo sempre più in basso nel calderone della chirurgica quotidianità. “The Lotus Eater”è paragonabile ad un giro sulle montagne russe per la sua vigore giovanile e per la sua irresistibile progressione, nella quale, soprattutto nell’intermezzo, mette piede in territori soffocati da sinuose ed avviluppate ragnatele che deviano l’orizzonte degli eventi. Risuona più che mai Mikael Åkerfeldt, che utilizza in alcuni frangenti anche un armonico cantato pulito.
“Burden” è un altro lento illuminato dal bagliore di un fiammifero acceso all’improvviso nel buio e viene introdotto da melliflue note di piano e nel suo incedere raccoglie l’eredità dell’immortale “Harvest “, con la quale non sfigura. Una grama commozione mista a tenerezza, sensazioni dolci amare e disincanto che presenta un suono palpitante e frenetico che diviene espressione di implicita vitalità. Il loro marchio di fabbrica trova giusta consistenza in “Porcelain Heart” tra l’altro primo singolo estratto dal Platter corredato anche da un micidiale video, manifesto intimista dal gusto quasi frugale ed idilliaco. Un’inesplorata scia di aggraziate sensazioni padri di suadenti visioni crepuscolari. L’atmosfera si distende con “Hessian Peel” una enigmatica tenebra di quiete cosmica colma di luccicanti lucciole e di rugiada dai risvolti sognatori , stemperati e fallaci la quale non perde un oncia di disarmante profondità.Ultima ma non ultima “ Hex Omega”, che la mia malata mente compara ai My Dying Bride per la comune aura di sacralità. Climax assoluto del Tomo , rende degni del sommo piacere con la sua terrificante capacità di creare una smodata tensione continua, un inebriante ed imperituro turbinio di nuvole, in ogni luogo, in ogni tempo.

Ora che la porta delle percezioni vergognose è stato aperta, e che il subconscio è stato esplorato almeno in parte, gli Opeth sono in grado, per l’ennesima volta di scaldare il cuore nei penetranti recessi dell’anima, candidandosi come gruppo romantico per eccellenza (insieme ai To-Mera e ai Novembre). Nonostante abbiano perso la fiaccola dell’ingenuità i Nostri continuano a creare una musica dei sentimenti come quella del firmamento, che ci accompagnerà ad ogni piccolo passo verso una coltre di nostalgie e rimpianti.

  • 8,5/10

  • OPETH - Watershed

  • Tracklist

    01. Coil
    02. Heir Apparent
    03. The Lotus Eater
    04. Burden
    05. Porcelain Heart
    06. Hessian Peel
    07. Hex Omega


  • Lineup

    Mikael Åkerfeldt - vocals, guitar, production
    Fredrik Åkesson - guitar
    Martin Mendez - bass
    Martin Axenrot - drums, percussion
    Per Wiberg - keyboards