Unia: “un disco pieno di buon umore !” Così Tony Kakko descrive il nuovo album dei suoi Sonata Arctica.
Non si può certo dargli torto, ma non è decisamente il buon umore che colpisce, chi, come la sottoscritta, segue da molto tempo i Sonata Arctica.
Già al primo ascolto, infatti, l’album rivela pienamente la nuova piega presa dalla band: il power, tanto acclamato in passato, è stato accantonato, per dare più spazio ad un sound prettamente melodico.
Che ci fosse nell’aria un cambiamento lo si poteva già ravvisare in Reckoning Night, ma in Unia il distacco è molto più netto che nel lavoro precedente: la chitarra rallenta in riff più cadenzati, così come la batteria, permettendo alla voce di Tony di sperimentare tonalità diverse dalle solite. Le tastiere passano da un sound alla “Stratovarious” ad uno più alla “Europe”: invece di imporsi sulla melodia, le tastiere si limitano a cullarla e a fare quasi da sfondo al resto della strumentazione, apparendo solo a tratti come protagoniste.
Alcune canzoni possono persino essere accostate al prog (genere del tutto estraneo ai vecchi Sonata) visti i frequenti cambi di “direzione” ritmica assunti dai nostri cinque finlandesi. I cori non sono più limitati a brevi parentesi ma utilizzati in modo pieno nelle canzoni, quasi come una seconda voce, riprendendo in questo molto dai Queen (del quale Kakko è un appassionato).
Si possono notare, inoltre, altri tre nuovi elementi: l’utilizzo di effetti per la voce (in “The Worlds Forgotten, the Words Forbidden”), di strumenti “insoliti” come il Buzuki (in “the harvest”), e infine dei veri archi (in “Good Enough is Good Enough”).
Se la track di apertura, “In Black and White” e il singolo “Paid in Full” sembrano ancora molto legati a Reckoning, non è così per “It Won’t Fade” nella quale sfoggiano una grande varietà ritmica, che tende dapprima a lasciare disorientati i nuovi ascoltatori e successivamente a coinvolgerli sempre di più. L’unica pecca della canzone, a mio parere, è il ritornello “filastrocca”, che porta a sottovalutare le potenzialità del brano.
“For the Sake of Revenge” è sicuramente la track più difficile da digerire dell’album, in cui il cantato cozza contro la melodia, riducendo in pratica il tutto ad una cantilena lamentosa.
Diverso l’effetto che si ha ascoltando la ballad “ Under Your Tree” in cui Tony sfoggia tutta la sua sensibilità e il suo lato sdolcinato di singer. I coretti contribuiscono a creare l’atmosfera.
“Caleb” rappresenta il terzo capitolo della storia dello stalker, Caleb appunto(che aveva avuto il suo inizio con“The End of This Chapter” in Silence ed è proseguita in Reckoning con “Don’t Say a Word”) del quale si racconta la storia da bambino. Pezzo forte della canzone il crescendo di cori e batteria a fine canzone, in cui l’ascoltatore è portato a tenere il ritmo agitando i pugni in aria (pensata forse per una resa live?). “The Vice” è una delle canzoni migliori del nuovo album e puo’ esserne considerata quasi il simbolo, visto che racchiude in sé tutte le novità apportate in Unia.
Il preludio di “My Dream’s but a Drop in a Fuel for a Nightmare”, ci porta a pensare ad una nuova ballad, trista e melensa, ma l’ipotesi è tutt’altro che fondata, il brano si rivela presto allegro e orecchiabile, anche qui numerosi i cambi di ritmo.“The Harvest”: canzone da mettere a manetta sullo stereo senza troppe remore, riesce a racchiudere l’anima dei vecchi sonata in quelli nuovi. Il risultato è qualcosa di strabiliante.
Seconda nota dolente dell’album è “The Worlds Forgotten The Words Forbidden”: Tony aumenta il pathos della sua voce effettandola, (riuscendoci anche bene) ma la canzone risulta estremamente piatta nella sua totalità: se non fosse lui a cantarla, potrebbe benissimo essere attribuibile a qualche boy band rockettara/nu metal. “Fly with the Black Swan” ci riporta sicuramente su un altro piano: la “country guitar” di Peter ci introduce a questo ottimo brano, in cui si può apprezzare Tony che si cimenta in 3 diversi stili di cantato.
In chiusura troviamo “Good Enough is Good Enough”, altro gioiello dell’album: gli archi creano l’atmosfera perfetta per il singer, che sfoggia tutta la sua compassione e delicatezza.
Immancabile la gag finale con strani suoni (di human being, come ci ha riferito Henrik xD): il tocco personale di una band che non si smentisce mai.
I Sonata Arctica dimostrano quindi di essere una band che riesce a non cadere nel banale anche dopo sette anni di attività, cogliendo alla sprovvista quanti li avevano già confinati nei territori del power metal.