Il luogo di provenienza influisce incredibilmente sulla musica di una band; non è un caso che certi generi siano ‘nati e cresciuti’ in zone ‘particolari’, ed ogni volta che qualche ‘straniero’ prova a cimentarsi in esso finisce per creare e scaturire qualcosa di nuovo o di innovativo. Il luogo e le frequentazioni di ciascuno forgiano la mente e il carattere e questo influenza implacabilmente la musica e l’arte.
Gli Steak sono inglesi, non americani. Suonano uno stoner ‘inglese’ e non ‘americano’… due prefazioni essenziali per capire questo quartetto. Le dieci tracce contenute in questo debut rendono grazie ai vari maestri americani del genere (Vista Chino su tutti), non inventando assolutamente nulla, ma si sforzano di donare maggiore ordine e pulizia (tipico della Terra di Albione) nelle strutture e nell’assimilazione delle stesse. Un lavoro estenuante, che in certi momenti illude l’ascoltatore attonito.
Con la supervisione dell’eminenza grigia Harper Hug (Vista Chino, Kyuss, etc…) “Slab City” prende forma in modo usuale: suoni sporchi e ultra effettati, voci roche e malate, atmosfere al limite dell’oppressione e una cadenza ripetitiva che spacca anche le gambe più allenate. La visione sonora è certamente desertica, come il copione richiede, ma vi sono margini di respiro che rendono il sound finale inverosimilmente freddo e catartico. Le performance sono mirate al tiro e alla destabilizzazione dell’ascoltatore, dove la semplicità è l’elemento base di tutto il contesto.
Dal nascere di “Coma” è già chiaro che gli Steak hanno intenzione di lavorare maggiormente sui suoni che sulla prestazione… “Liquid Gold” toglie il fiato mentre “Pisser” e il singolo “Rising” attaccano l’ascoltatore alla sedia. La titletrack e “Machine” appaiono come gli episodi meno assimilabili, probabilmente per la minor attività di ricerca dedicata, mentre “Roadhead” e “Hanoid” mostrano la band nel massimo spolvero, soprattutto Reece alle sei corde.
Un debut onesto e intelligente. La band è cosciente di non essere in grado, al momento, di innovare un genere così complesso, ma si sa adoperare con estro nell’ammorbare diversamente l’atmosfera totale del platter. “Slab City” va capito, studiato e ascoltato con molta calma, perché perdersi nel mero paragone con i maestri del genere è un errore facilmente commettibile.