Mi rendo conto che è inevitabile fare paragoni di un certo calibro quando si ascolta una nuova band che si propone in un ambiente musicale così pesantemente dominato da giganti della musica, come nel caso del progressive metal. Detto ciò vediamo cosa propongono i Sunburst con il loro album di debutto “Fragments of Creation”.
L’album si apre con “Out of the World”: chitarre pesanti a sette corde che si impongono pesantemente, voce penetrante, molto malleabile ed eccezionalmente potente, con un vibrato forse un po’ troppo accentuato ma complessivamente un’esecuzione eccellente… tuttavia il senso di deja vù non mi dà tregua dall’inizio fino alla fine della traccia.
La seconda canzone, “Dementia”, ravviva la speranza di un buon ascolto, risultando molto più originale ed evocativa. Interessante sono l’uso delle chitarre a sette corde che danno una sonorità più tipicamente death metal che insieme alla voce cristallina e melodica danno un bell’effetto, e il modo in cui le tastiere e il synth si inseriscono nel mix.
“Symbol of Life” parte con uno splendido assolo di chitarra in tapping, molto energico quasi power metal che ricorda molto i Symphony X. In questa canzone le chitarre fanno da protagoniste avendo a disposizioni più assoli e ponti melodici. Sulla stessa linea guida continua anche “Reincarnation”, in cui si accentua ancora di più l’influenza power metal con la doppia cassa che riempie la canzone di energia, tuttavia la voce e la costruzione del brano ricordano che si tratta di progressive metal con tanto di abbondanti virtuosismi soprattutto di chitarra.
A metà dell’album, “Lullaby”, come anche il titolo suggerisce, è una ballata che spezza il ritmo serrato delle canzoni precedenti. Molto dolce, con molteplici linee vocali armonizzate, così come lo sono anche le chitarre con ampio uso di accordi di ottava, risulta essere un’ottima canzone.
Si riparte in forza, con dissonanze e ritmica dura quasi a cambiare completamente verso rispetto alla prima parte dell’album, “End of the Game” è fatta per fomentare. Unica pecca o, a mio avviso, nota di originalità è l’assolo di mezzo che volutamente irrompe e spezza la canzone con dissonanze. Segue una strumentale degna di tutto il rispetto, “Beyond the Darkest Sun”, anche questa molto power metal, con un ritmo e alcuni riff che ricordano gli Stratovarius.
Le ultime tre canzoni in chiusura dell’album sembrano però su totalmente un altro livello artistico e musicale. Infatti nell’ottava traccia, “Forevermore”, arriva qualcosa che è mancato complessivamente in quasi tutte le canzoni precedenti: una struttura ritmica più elaborata, meno lineare e torna a farsi sentire il synth che sembrava un po’ trascurato. “Break the Core” è la conferma che nella seconda parte dell’album è volutamente cercata una sonorità più aspra e pesante, introducendo addirittura alcuni versi in growl.
Dulcis in fundo, l’ultima canzone, “Remedy of my Heart” è un capolavoro musicale: più di dodici minuti di canzone di pura arte. L’inizio sembra quasi un sottile tributo al musicista connazionale Vangelis, con cori e atmosfera grandiosa. Prosegue dunque mantenendo l’atmosfera grandiosa, partono schitarrate e una melodia molto coinvolgente che proietta tra sogno e realtà l’ascoltatore. In 12 minuti e raccolta ogni sorta di espressione musicale, da virtuosismi a doppia cassa fomentante, da voce malinconica e melodica a growl pesante, da ritmi serrati a ponti rilassanti e puliti.
L’esperienza della band è notevole e per un album di debutto, il risultato è ottimo e merita decisamente più di un ascolto. Non è un album che si fa amare facilmente e come anticipavo nell’introduzione, quando lo si ascolta, non è facile prenderlo per com’è e si tende a fare paragoni e cercare somiglianze fastidiose che magari risuonano nella testa senza necessariamente essere fondate.