La notizia di una reunion dei Sanctuary ha messo l’acquolina in bocca a molti fans, ma un piccolo appunto sull’approccio di pubblico e critica è doveroso prima di parlarvi di questo chiacchieratissimo “The Year The Sun Died“. Primo punto, il disco è bello, c’è poco da discutere. Secondo, si è parlato di questo terzo album dei Sanctuary come di una reunion dei Nevermore, che come tutti voi saprete sono nati dalle ceneri dei Sanctuary, ma così non è e concedetemi di aggiungere un sollevato “per fortuna”, perchè il carattere e l’individualità dei Sanctuary erano tali da poter risorgere senza scomodi giganti alle spalle. Terzo ed ultimo assunto, questo lavoro va ascoltato senza pregiudizi, senza gli inutili paragoni che costantemente si leggono con “The Obsidian Conspirancy“, album ovviamente che fa parte del bagaglio musicale di questo “The Year The Sun Died” senza essere però il termine di riferimento che molti vorrebbero.
Se avete sgomberato la mente dai sentimentalismi e dalle aspettative infondate, potete continuare a leggere questa recensione e ascoltare un disco che propone un’ottima miscela di heavy metal, US power e perchè no, qualche piacevolissimo stacco prog metal. Dopo due album che non raggiunsero le vette che avrebbero meritato, “Refuge Denied” (1987, prodotto da Dave Mustaine) e “Into the Mirror Black” (1989), i Sanctuary si sciolsero, Warrel Dane e Jim Sheppard fondarono i Nevermore e scrissero il pezzetto di storia del metal che gli competeva. Nel 2010 si annuncia la reunion dei Sanctuary e inizia un percorso che porta a questo “The Year the Sun Died“, album ricco di luci ed ombre, dalle molte sfumature, che necessita di qualche ascolto per essere metabolizzato al meglio.
La opening track “Arise And Purify” è paradossalmente la canzone meno intensa e coinvolgente dell’intero disco, seppur godibile con un Warrel Dane che sembra aver ritrovato il piacere di gustarsi il calore del suo cantato. Si inizia a fare sul serio con “Let The Serpent Follow Me“, canzone decisamente più complessa e densa, dove finalmente si sente inconfondibile il tocco di Lenny Rutledge. L’album in effetti parte piano, ma la bella “Exitium (Anthem Of The Living)” ingrana definitivamente la marcia: potente e cadenzata, dotata di gran carattere e stile à la Black Label Society, innesta una notevole dose di energia e cattiveria; si continua su questa riga con “Question Existence Fading“, pezzo corposo, diretto, pesante ed oscuro, assolutamente adatto alla teatralità e al gusto di Dane e Sheppard, con la malinconia di Rutledge, sicuramente uno dei momenti groovy migliori dell’album.
Il ritmo rallenta per un attimo con una semi ballad come “I Am Low”, molto suggestiva ed ispirata, con un finale mozzafiato. Arriva il turno di “Frozen” e finalmente i fans più nostalgici, quelli che stavano aspettando i Sanctuary di “Refuge Denied”, possono tirare un respiro di sollievo e godersi un pezzo veloce ed aggressivo, con un attacco pressante che stuzzica il lato più power del gruppo, sguinzagliato negli assoli di Rutledge e del bravissimo Brad Hull, l’unica vera incognita (positivamente risolta) di questa formazione.
Si cresce in drammaticità e teatralità con l’affascinante “One Final Day (Sworn To Believe)”, dove a farla da padrona è un’incredibile chitarra acustica e un refrain ossessivo-compulsivo. “The World Is Wired” è un pezzo di grande spessore ed ampio respiro, si apre a sonorità molto moderne e risulta davvero ben costruito e sicuramente ben riuscito. L’emozionante “Ad Vitam Aeternam” è un attimo di un respiro che riuscirete a prendere tra le due vere perle del disco, “The Dying Age” e “The Year The Sun Died“: trittico finale che innalza senza ombra di dubbio il livello dell’intero album. “The dying Age” è oscura, introspettiva, rimbomba senza tregua in un andamento quasi doom e conclusione esplosiva; “The Year The Sun Died” è una chiusura perfetta per un album così intenso, si tratta di una canzone molto suggestiva dalla raffinata melodia, l’atmosfera decadente ed opprimente avvolge e trascina via.
L’album nella sua interezza è complesso, senza alti picchi di originalità, ma molto omogeneo e compatto, con tutti i musicisti in forma più brillante rispetto alle performances degli ultimi anni; è sicuramente adatto ai fans della prima ora, qualche affezionatissimo dei Nevermore storcerà il naso, ma è un lavoro che sicuramente va ascoltato con attenzione e che piacerà anche a chi ama un heavy metal venato di sonorità più cupe, sabbathiane.