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Björn Gelotte – In Flames

L’11 novembre uscirà “Battles”, nuovo capitolo discografico degli svedesi In Flames, che, come al solito, dividerà i fans e farà parlare di sé. Abbiamo incontrato Björn Gelotte, chitarrista della band, in una assolata giornata di autunno milanese, ed ecco quanto ci ha raccontato:

– Ciao Björn, ti va di parlarci del vostro nuovo disco “Battles”? È stato facile registrarlo?

Bella domanda. Si, sotto ogni aspetto è stato molto facile da registrare. Ogni cosa è iniziata nello stesso modo rispetto al solito, si comincia da alcune melodie, alcuni riff, ho registrato come sempre qualche demo grezza, su cui abbiamo lavorato Anders (Fridén, cantante del gruppo, nda) e io. Sai, è funzionato più o meno sempre così, anche prima con Jesper (Strömblad, ex componente del gruppo, nda). Il disco precedente era stato registrato a Berlino, d’inverno, in una città fredda, storicamente importante, e aveva un’atmosfera melanconica. Non avevo ancora sperimentato che l’ambiente esterno potesse incidere così tanto su una registrazione. Così quando ci siamo trovati a pensare al nuovo disco ci siamo detti “Ok, siamo soddisfatti di Siren Charms, cosa possiamo fare per il nuovo disco?” Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con un buon numero di produttori per capire se fossero interessati, e abbiamo trovato Howard Benson. Lui ha lo studio a Los Angeles, tra sole, mare, 30 gradi…ci siamo detti: “Forse è quello di cui abbiamo bisogno ora”.

Il suo team è molto efficiente, tra Howard e il suo coproduttore hanno registrato ogni genere, dai Sepultura ai Kiss, ai Van Halen e sanno il fatto loro. Abbiamo fatto anziché le solite 12-14 ore, 6-8 ore al giorno, ma eravamo molto concentrati, non serviva un’ora per cambiare microfoni e cose di questo tipo. Un’esperienza molto creativa.

– Un aspetto rilevante è che Daniel Svensson ha deciso di concentrarsi sulla sua famiglia, lasciando gli In Flames. Questa è la prima volta con Joe Rickard alla batteria. Ha preso parte solo alle registrazioni o anche alla composizione?

Joe è arrivato molto tardi. Non ho mai voluto fare un drum programming troppo dettagliato nei demo che ho passato agli altri. Se per questo, non volevamo nemmeno concentrarci a trovare un nuovo batterista, volevamo solo registrare e “noleggiare” un batterista a Los Angeles che fosse abbastanza buono per le registrazioni, ma una volta che ci hanno presentato Joe e quando ci ha fatto sentire come suonava, abbiamo sentito che era il caso di prenderlo nel gruppo, ed è diventato un nostro buon amico. E, quando gli abbiamo chiesto se avesse intenzione di venire in tour con noi, ha detto subito di si. Gli abbiamo chiesto se volesse prima sentire la famiglia, ma aveva già deciso.

– Nel panorama metal attuale sembra ci sia un po’ di stagnazione, gli ultimi generi nati sono degli anni ’90, mentre gli In Flames continuano a cambiare…

Non penso ci sia stagnazione. Forse c’è troppa musica, e quindi è difficile capire cosa stia accadendo. C’è molta più musica oggi che negli anni ’90, senza dubbio. Quanto a noi, mettiamola così: quando scriviamo, deve piacerci quello che facciamo. Non possiamo accontentare tutti, dobbiamo essere onesti. Nessun produttore, etichetta, giornalista, nessuno nel pubblico può dirci come deve suonare un album. Quando qualcuno dice “Cos’è sta roba?” Avete composto “The Jester Race”, lo capiamo, ma quel disco lo abbiamo già fatto. Questo è quello che facciamo oggi. Vogliamo provare nuove cose. Quanto ai generi, forse è che i giornalisti vogliono dare bei nomi ai quello che uno suona, ma non sempre ci si riesce, non saprei.

– Il cambiamento musicale degli In Flames può riflettere in qualche modo un cambiamento personale. Pensi che la vostra crescita stilistica sia collegata in qualche modo alla vostra crescita individuale?

Naturalmente, penso che tu ti sia risposto da solo. Ho iniziato a suonare a circa venti anni. Non avevo ancora alcuna responsabilità, ero un ragazzo, ingenuo in un certo senso. Ora ho 41 anni, ho speso più di metà della mia vita in questo gruppo. Sono invecchiato e sono cresciuto come musicista e come compositore. Ho un diverso approccio, certo, d’altronde ci sono 20 anni in mezzo. Il nostro percorso musicale è stato molto intenso. Dopo “Colony” abbiamo cominciato ad andare molto in tour. Musicalmente, per esempio, ci siamo resi conto che non potevamo avere un numero troppo elevato di sovraincisioni, perché dal vivo non avremmo potuto riprodurle, e spendevamo più tempo in tour che in studio, quindi ci è parso sensato limitarle. Sotto altri aspetti, ovviamente avere una famiglia cambia il tuo approccio alla musica. Negli anni ’90 ci dicevano: “Ragazzi volete aprire ai Sodom? Non farete un centesimo, anzi dovrete praticamente pagare, starete su un tour bus scadente, non dormirete, ecc…” e noi “Oh si!”. Prendevamo ogni occasione che capitasse, senza pensarci troppo. Forse a volte ho ancora questo approccio, ma le priorità inevitabilmente cambiano. Allora potevi tollerare tutto, tutto quello che facevi era ingigantito, ora ci focalizziamo su cose diverse. E poi oggi abbiamo più consapevolezza di come suoniamo e di cosa vogliamo dire.

– Parlando dei testi, noto che contengono tematiche molto esistenziali, che hanno a che fare con il destino, le questioni della vita, tematiche affrontate sempre con maggiore frequenza da “Come Clarity”…

Anders scrive i testi e quando scrivi i testi devi avere qualcosa da dire. Se fai barbecue e bevi birra tutto il giorno, diciamo che non è interessante. Magari è quello che ti piace fare, ma non è assolutamente interessante. Agli esordi abbiamo cominciato con grandi tematiche, forse non esattamente globali, ma in un certo senso epiche e ideali, che avevano a che fare con l’umanità e queste cose. Ora, quando la vita va avanti e le tue priorità cambiano, inizi a riflettere sulla tua vita, su quello che fai, sui tuoi obiettivi. “Battles” non è un concept album, ma certamente le canzoni sono legate da un filo conduttore, che riguarda appunto i problemi della vita, le scelte che fai, i dilemmi morali o etici, se così possiamo dire e le esperienze personali. E molte domande. Per esempio, prendi “The End”. Se qualcuno ti dicesse che hai 5 minuti prima di morire, ti fermeresti a pensare su chi sei, cosa hai fatto, non solo se hai avuto una bella casa. Hai fatto le cose giuste? Come le tue scelte hanno influito sulle altre persone? Non smetto di pensare a chi sono. Sono una brava persona? Queste sono le cose importanti.

– Ancora una volta affrontiamo il discorso della crescita individuale, che ha finita per influenzare la vostra musica…

Certo. Ovviamente non pensavo a queste cose a 19 anni. Pensavo che avrei smesso di bere quando sarei stato vecchio e pensavo a fare party fino a vomitare. Col tempo ho cambiato prospettive. Non so se la mia “morale” è quella condivisa da tutti, ma penso sia importante porsi domande. 

– Cambiando argomento, state per affrontare un lungo tour in supporto di “Battles”

Non suoniamo live da un anno, e non ho suonato la chitarra per diversi mesi. Poi i nostri amici nei Dark Tranquillity mi hanno chiesto se potessi registrare un assolo sul loro disco, e pensai “Si, che bello, tempismo perfetto”. Ho iniziato a suonare e le dita mi facevano male. Questa cosa mi ha insegnato che non posso essere pigro. Sono molto carico per questo tour. Il primo show sarà in Giappone, poi andremo negli Usa, per 5-6 settimane fino a natale, poi voleremo in Gran Bretagna, con Avenged Sevenfold e Disturbed. Sarà una grande piattaforma per noi, e speriamo di collegare il tour britannico con il resto dell’Europa e anche l’Italia, ovviamente.

– Sono circa 25 anni che suoni negli In Flames: quando suoni, registri o quando scrivi musica pensi anche a chi è diretta? Se si, verso chi è diretta la tua musica?

So perfettamente a chi è diretta la mia musica. Me. È molto egoistico, lo so, ma è l’unico modo di essere onesto verso gli altri e verso me stesso. Se suonassi qualcosa per far piacere agli altri probabilmente si sentirebbe. Così sicuramente divido l’audience, ma non mi interessa, perché posso stare sul palco suonando le mie cose. Non siamo una cover band, non siamo qui per essere popolari o fare soldi, e se alla gente piace, questo è ottimo. Guarda: sono qui con te, a Milano, in una bellissima giornata di sole. E questo accade perché sono stato sincero con tutti, altrimenti sono convinto che non saremmo qui e tu non mi staresti intervistando, non saresti minimamente interessato. Quello che faccio è una passione, uno stile di vita, non è un lavoro. Certo, con questo ci pago le bollette, ma non è un lavoro.

– Ok Björn, l’intervista è finita. Concludi pure come vuoi.

Grazie per il supporto. Siamo in giro dal 1994, per oltre 20 anni l’Italia è sempre stata in un posto speciale nel nostro cuore. Torneremo presto.