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REZOPHONIC – Mario Riso

Intervista con Mario Riso, fondatore del progetto Rezophonic, nato in aiuto al progetto idrico di AMREF in Africa, e storico batterista di una delle più importanti heavy metal bands italiane degli anni ’80: i Royal Air Force.

Una bella e piacevole chiacchierata con alcuni spunti che esulano dal contesto musicale vero e proprio, ma che meritano sicuramente una lettura ed una riflessione…

Buona lettura!

Ok, inizio subito chiedendoti di illustrarci come è nato
il progetto Rezophonic, quali sono le motivazioni che ti hanno spinto alla sua
realizzazione?

Inizio raccontandoti un po’ chi sono…Io sono batterista da
circa ventanni, ho lavorato con artisti della scena nazionale molto importanti e
ho avuto una importantissima esperienza in una delle band heavy metal più
importante degli anni ’80, gli Royal Air Force. Circa cinque anni fa ho deciso
insieme ad altri ragazzi di fondare RockTV che è il canale satellitare 718 di
Sky, per rendere giustizia ad un genere musicale che spesso è stato preso in
considerazione poco e male. Anzi è stato preso in considerazione a sproposito,
parlandone solo per alcol, droga, satanismo, bestie di satana…tutte cose
assolutamente lontane dal mondo che io amo e che mi ha fatto crescere.

Ho deciso di sacrificare un po’ la mia carriera artistica,
decidendo di non dedicare solamente il mio tempo per suonare la batteria ed
incidere dischi e concentrarmi su questa nuova avventura della televisione.
Quindi ho sacrificato un po’ la mia essenza, che è quella di fare musica, per
poter dare vita a questo progetto.

Però se la tua vita è fare musica, ora che sono passati un
po’ di anni, ho deciso di tornare a fare il musicista senza far parte di una
band. Ho fatto l’inverso di quello che ho sempre fatto: ho spedito i miei pezzi
agli altri artisti, con i quali io avevo suonato nei loro dischi e collaborato
con essi chiedendogli di partecipare ad un progetto mio.

C’è stata un’adesione unanime. Ho iniziato a scrivere il
mio disco che doveva essere una sorta di tributo a Mario Riso, diciamo un
tributo da vivo e non da morto! Un tributo ai ventanni della mia carriera
artistica.

Detto questo sono partito con un viaggio premio con la
Nazionale Artisti dello Spettacolo in Africa, in Kenia e mi sono trovato a fare
il turista in un villaggio bellissimo, incredibile. Dopo qualche giorno ho
iniziato a guardarmi intorno anche al di fuori del villaggio e mi sono
appassionato a capire il popolo africano che sta al di fuori dei bei villaggi in
cui andiamo in vacanza.

Fortuna ha voluto che insieme a me in quel viaggio c’era un
consigliere di AMREF che ha un ruolo molto importante nell’associazione. Lui mi
ha spiegato di che cosa di occupano, di cosa stavano facendo e io mi sono
innamorato del progetto idrico che riguarda appunto la costruzione di pozzi
d’acqua pulita e quando sono tornato in Italia mi sono convinto di fare qualcosa
per queste persone che hanno bisogno di tanto ma che ti danno tanto. Ti
riempiono di sorrisi, condividono con te l’unica caramella che hanno, la matita
che hanno, etc etc… Questa esperienza è stata una lezione importante che mi ha
fatto crescere.

Quindi quando sono tornato ho cambiato destinazione al
disco di Mario Riso, che mi sono reso conto sarebbe stato il solito disco
inutile fatto più che altro per la mia soddisfazione personale.

Ecco perché il nome Rezophonic, non volevo essere così
spudorato, però leggendolo all’inglese suona un po’ come Risofonic…

Praticamente è un disco solista di un piccolo musicista
italiano che ha la fortuna di avere invece tanti amici.

Ok, tu hai avuto la fortuna di avere tanti ospiti che
hanno partecipato al progetto, da Cristina dei Lacuna Coil, a Pino Scotto, ad
alcuni membri di band come Shandon, Subsonica, etc etc…Ti è rimasto qualcuno che
avresti voluto avere sul tuo disco o che non ha accettato o non sei riuscito a
contattare?

Che avrei voluto sul disco ce ne sono altri mille! Per
quanto riguarda chi non accettato, solitamente non parlo delle cose poco
piacevoli anche perché in questo progetto non ce ne sono state! Ti dico che ce
ne sono stati tantissimi che avrebbero voluto partecipare, ma per motivi
economici e di tempo non sono riuscito a combinare. Te ne cito alcuni: Max
Pezzali, Grignani, Jovanotti e altri della scena meno rock italiana si sono resi
disponibili ma questo disco me lo sono auto finanziato, l’ho prodotto insieme a
Marco Trentacoste che è un ragazzo con delle capacità incredibili.

Finendo i soldi ho dovuto a malincuore rinunciare ad altre
collaborazioni.

Hai già progettato il secondo episodio di Rezophonic?
Magari coinvolgendo quegli artisti che non sei riuscito ad avere prima?

Direi che per ora non è la priorità concentrarsi su un
secondo album. Aspetta, faccio un passo indietro: del primo disco mi sono auto
finanziato il primo videoclip, grazie all’aiuto del regista l’abbiamo messo a
disposizione della televisione. Grazie a questo videoclip ho iniziato a
promuovere il primo singolo Can You Hear Me. Successivamente abbiamo fatto il
secondo video: L’Uomo di Plastica che è andato benissimo e me l’hanno passato
dovunque in cui ci sono moltissimi artisti che recitano sprechi d’acqua
quotidiani.

Al di là di questo per promuovere l’album o fai dei
videoclip che però sono molto costosi e non me li posso permettere, considerando
che lo scopo dell’album è quello di raccogliere fondi e non spenderli, oppure
fare concerti.

Questo disco contiene 15 canzoni uniche nel proprio genere
perché sono 15 potenziali singoli. Non tanto per la bellezza delle canzoni
perché potrebbero piacere a me e basta, anche solo per gli artisti che le hanno
eseguite meritano di essere singoli. La canzone in cui canta Paolo dei Negrita,
oppure quella in cui canta Francesco delle Vibrazioni, oppure quella in cui c’è
Cristina dei Lacuna Coil.

Il senso di questo è che io non posso far morire un disco
di 15 canzoni fatte da 70 artisti circa, trattandolo come un disco qualunque con
primo e secondo singolo. Voglio tirare il collo a tutto questo lavoro, che mi è
costato quattro anni di lavoro fra registrazioni, liberatorie, licenze,
disponibilità…

Il compito mio sarà quello di dare un videoclip per ogni
canzone e di fare un tour a supporto di questo progetto per farne parlare a
lungo.

Quindi le date di adesso sono le prime? Per quanto avete
intenzione di prolungare il tour?

Direi che durerà circa un anno. L’album è uscito circa otto
mesi fa ma la gente inizia a conoscere il progetto solo ora, perché la musica
non è una priorità in Italia e le televisioni e le radio lo hanno appoggiato in
parte, però non si può parlare di Rezophonic come un progetto conosciuto. Siamo
all’inizio, le date sono tutto esaurito e diciamo che siamo in una fase di
raccolta e non di semina.

La line-up che proponete nei vostri concerti è sempre la
stessa o cambia per ogni esibizione?

E’ casualissima! Ad esempio per tutto febbraio abbiamo la
fortuna di avere Cristina Scabbia, i Prozac +, Gianluca ed Alessandra dei
Movida, Fabrizio delle Vibrazioni, Max dei Dearsonica,etc…

Tanti altri li recuperò più avanti. Il grande dispiacere
per me è che Cristina Scabbia, che rappresenta forse la punta di diamante ed è
una ragazza splendida che ha sempre creduto in questo progetto, valorizzandolo
ovunque sia andata in giro nel mondo con i Lacuna Coil.

Il fatto che lei vada a suonare negli Stati Uniti, mi fa
molto felice perché è una grande soddisfazione professionale per lei ed i Lacuna
Coil, ma questo mi dispiace perché la perdiamo per le nostre date live.

Adesso facciamo un salto nel passato e ripercorriamo i
tuoi trascorsi nei Royal Air Force (R.A.F). Come vedi adesso quel passato? Come
era al tempo la scena metal italiana, della quale voi eravate una delle band
principali?

Il primo disco è stato fatto nel’85, quindi stiamo parlando
di ventidue anni fa! Ero giovanissimo e facevo già il metallaro in giro per il
mondo, perché fortunatamente i R.A.F. hanno avuto dei momenti bellissimi ed
importantissimi in quegli anni: siamo stati band italiana nel mondo, abbiamo
vinto i referendum negli anni ’80 come miglior gruppo, abbiamo avuto l’onore di
fare il primo Monster of Rock con Iron Maiden, Kiss, Anthrax, Helloween, abbiamo
suonato di supporto con i Metallica nel tour di And Justice for All, abbiamo
suonato con Motorhead, Manowar e abbiamo avuto la fortuna di essere prodotti dal
migliore produttore di Los Angeles dell’epoca che era Jim Hallen. Alla fine
abbiamo sfondato tante porte chiuse, siamo stati i primi che abbiamo fatto
parlare del metal italiano, siamo andati a San Remo Rock con Bon Jovi, Def
Leppard.

Alla fine di tutto però abbiamo realizzato che eravamo i
numeri uno di qualcosa che non esisteva, perché essere il numero uno del metal
italiano equivaleva a dire: “io so tirare la figurina più lontano di un altro”!

Quindi diciamo che mancava la scena metal vera e propria
in Italia che vi potesse supportare?

Si anche, ma non eravamo neanche noi troppo
credibili!Scimmiottavano gli stranieri, cercando di immaginare cosa fosse il
metal, cosa fosse la scena. Cercavamo di imitare gli altri senza sapere e
arrivavamo sempre dopo! Quindi arrivati a quel punto abbiamo capito che questo
mondo ci stava stretto e abbiamo aperto a nuove collaborazioni. Siamo stati i
primi a fare cross-over nel senso vero fra artisti. Ad esempio noi suonavamo con
Jovanotti che in quegli anni era il personaggio più odiato dai metallari
d’Italia. Io e il chitarrista dei R.A.F. eravamo i musicisti di Jovanotti!

Questa cosa era stata presa malissimo dai fan estremi del
metal e perciò ci siamo trovati noi, che avevamo fatto questo gesto per ampliare
i nostri orizzonti, a confrontarci con lo scontento dei fans di vecchia data.

Due dischi, tour incredibili: abbiamo deciso di finirla lì!
Sinceramente mi stava stretto quel mondo così chiuso e Rock TV lo dimostra. Qui
c’è rock a 360 ° e rispecchia anche quella che è stata la mia carriera: ho
suonato con 883, Grignani, Jovanotti, PFM, Persiana Jones e tanti altri…

Hai qualche episodio particolare che vorresti raccontare
su quelle band con le quali suonaste al Monster of Rock? Voi da “piccola” band
italiana, come vedevate quei mostri sacri come Kiss e Iron Maiden?

Beh, con i Kiss ci siamo resi conto di cosa significasse
quel fanatismo di cui sentivamo spesso parlare. Vedevamo donne che salivano sul
tour bus in quantità industriale e lì abbiamo capito la grande differenza
rispetto a noi! Groupies in quantità industriale, ragazze che salivano altre che
scendevano! Ci ha lasciato veramente un po’ spaesati!

Riguardo agli Iron Maiden ti posso raccontare che quando ho
offerto una birra a Bruce Dickinson, che io vedevo come il classico inglese
ubriacone birraiolo, re del metallo, etc etc…, mi son sentito rispondere “quando
lavoro non bevo mai”. E lì ho capito che avevo tutta un’idea sbagliata di quella
band! (risate, ndr)

Voi suonavate in un periodo in cui non c’era internet,
non c’era niente praticamente! Anche quello è stato un ostacolo per riuscire ad
affermarvi del tutto?

Certamente! Non c’era né VHS, né DVD, né tanto meno
internet. Tu compravi ad esempio la rivista RockStar per vedere una foto sola di
Angus Young! Erano periodi in cui c’era poca informazione al contrario di oggi
in cui c’è sovra-informazione e si può trovare praticamente qualsiasi cosa e
sapere tutto di qualsiasi band. Ed è quindi molto più facile farsi conoscere!

Tu sei soprattutto un batterista. Dimmi quali sono stati
i tuoi idoli, i tuoi punti di riferimento.

Ce ne sarebbero miliardi ma ne nomino sempre tre:

1) Stewart Copeland dei Police perché ha un modo di suonare
che resiste nel tempo ed è stato il vero inventore del cross-over fra rock e
reggae e il suo modo molto istintivo e poco didattico mi ha sempre affascinato.

2) John Bonham dei Led Zeppelin perché la batteria deve
accompagnarti un po’ come l’autista di un tram e lui ne era maestro. Lui ti
portava sano e salvo alla fine della canzone, lui aveva il suo drive
personalissimo che lo facevano unico e lo riconoscevi in mezzo a migliaia.

3) Deen Castronovo, il vero tamarro del rock-metal. Due
casse usate con grinta, potenza, precisione.

Non a caso ti ho nominato tre batteristi che non hanno
studiato, ma che hanno avuto ed hanno qualcosa da dire, da esprimere. Poi ci
sono ovviamente altri tantissimi fuoriclasse in quanto a tecnica, però questi
tre li stimo veramente tanto.

Tu hai partecipato nell’ultimo album dei Fire Trail di
Pino Scotto. Come è nata questa partecipazione? Come è stato lavorare con Pino?

Pino non si batte! E’ il vero rocker italiano, una persona
di cuore, vera, che non deve niente a nessuno e che si è presa sempre le proprie
responsabilità! Meriterebbe di essere ascoltato in tutto il mondo. Lavorare con
lui è stato un piacere ed è stato divertente: due giorni prima mi fa:”Mario, mi
registri il disco? Sono 11 o 12 pezzi”! Alla fine dopo due giorni avevo
registrato 5 pezzi. Praticamente in un pomeriggio sono andato in studio, ho
suonato e sono tornato al lavoro. Ecco fatto!

Non ti hanno mai chiesto di entrare a far parte di
qualche band straniera?

Altrochè! I Manowar ad esempio! Io dovevo essere il nuovo
batterista della band. E’ venuto Joey deMaio a Milano, nella sala dove provavo,
c’era anche Massimo Levantini che era della Barley Arts, la nostra agenzia di
quel periodo. Io ho rifiutato quell’offerta perché la mia vita ce l’avevo in
Italia e non mi vedevo troppo bene in mutande di pelle! (risate, ndr)

Una cosa che mi ha fatto piacere è che mi arrivò un fax,
che conservo ancora gelosamente, da Wendy Dio, la moglie di R.J. Dio chiedendomi
di far parte della band storica del marito, quella con Vivian Cambpell per
capirci! C’era proprio scritto:”se arriva Mario, vado all’aeroporto a piedi a
prenderlo!” E ho rifiutato perché l’America ce l’avevo in Italia: suonavo nel
gruppo italiano heavy metal più importante e con l’artista pop più affermato che
era Jovanotti!

A posteriori qualche rimpianto per quelle scelte?

No, assolutamente! La vita è un po’ come un videogiochi a
quadri: se tu scegli di entrare in un quadro ti si determina un altro tipo di
vita. I bilanci si fanno sempre alla fine. Ho fatto Rock TV, Rezophonic che mi
hanno dato grande soddisfazione!

Ok, siamo alla fine! Ti lascio chiudere come meglio
preferisci questa bella chiacchierata!

Prima ho parlato di AMREF, che è un’associazione che si
occupa di problemi africani: sanità, istruzione e tanto altro. Io mi sono
occupato del problema idrico che non è solo specifico del continente africano,
ma sta diventando importante anche da noi. Innanzitutto noi come Rezophonic
quando andiamo in giro a suonare o vendiamo il disco, non chiediamo qualcosa, ma
regaliamo qualcosa attraverso la musica. Siamo trenta-quaranta artisti di
livello nazionale che saliamo sul palco per divertirci e far divertire i ragazzi
sotto il palco, ma che cerchiamo anche di far stare meglio chi non è fortunato
come noi, chi ha avuto la sfortuna di nascere in un posto in cui anche bere un
bicchiere d’acqua è un problema.

Noi non ci rendiamo conto di come siamo fortunati ad avere
una famiglia, di poter scegliere cosa mangiare alla sera e scegliere dove
andare, di decidere quando lavarsi, se comprare l’acqua in bottiglia o bere
quella del rubinetto. Tante fortune che, presi dalla quotidianità, diamo per
scontate e non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati. Il mio invito è
quello di non auto-convincersi che siamo degli sfigati perché abbiamo litigato
con la fidanzata, al lavoro abbiamo qualche problema, perché avrei voluto essere
più alto e più bello. Non ci rendiamo conto che questi sono piccoli problemi
della vita e ci sono altre persone che non hanno la fortuna di pensare a come
sarà il proprio futuro e a cosa faranno domani, non hanno la fortuna di poter
abbracciare la mamma e il papà.

Quindi non sentiamoci degli sfigati, perché se anche è
andata male la giornata quando torniamo a casa alla sera abbiamo delle fortune
che molti in questo mondo non hanno.