Quando leggo ‘rock’ come genere di una band misconosciuta, inizio a chiedermi cosa intendano con quelle semplici quattro lettere…fondamentalmente tutto quello che ascoltiamo oggi è rock e anche se è diventata mera abitudine settorializzare qualsiasi uscita con definizioni discutibili, alla base comunque si trovano sempre le radici che fanno scapocciare.
Il discorso comunque rimane legato alla sostanza…e in questo “Abra Kadavar” sinceramente non ce n’è a grandi dosi. La band, forgiata da musicisti già scafati e facenti parte di altre realtà, si presenta come un trio dalla natura ‘vintage’, impegnato nella difficile impresa di proporre un rock/hard rock carico di energia e di sfumature; Lupus Lindemann e soci arrivano alla seconda uscita discografica con numerosissime idee da propinare, ma deficitando della capacità di saperle unire per rendere il piatto accattivante e ricco…
La cura in consolle è il vero fiore all’occhiello di questo disco…sembra davvero di essere proiettati in uno studio durante i mitici 70s e di assistere alla performance di una band davanti ai nostri occhi, dove i microfoni riescono a catturare ogni singola variazione dinamica mantenendo il sound ovattato. Le performance sono apprezzabili (anche se poco avvincenti) mentre sicuramente è vincente la scelta dell’artwork e dell’ambientazione.
Come songs, sinceramente, mi sento di segnalare ben poco…pezzi come “Doomsday Machine” e “Liquid Dream” fanno capire che i Kadavar hanno delle potenzialità promettenti dalla loro, mentre in altri momenti come l’opener “Come Back Life” o “Fire” la sensazione è di una soluzione compositiva abbozzata a grandi linee. Gradevoli (ma scontate) “Dust” e “Eye Of The Storm”, mentre “Black Snake” rappresenta il pedice di tutto il disco…
Fossimo negli anni 70, i Kadavar avrebbero rappresentato una delle infinite band a cui mancava l’idea in più per uscire dall’anonimato…nel 2013 ovviamente tutto sembra essere diverso, e forse questo gioca a loro favore. Bypassabili…e senza troppe fisime.
