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GBH

Il Lo-Fi, tramite l’attenta e competente regia dell’Hard Staff, riesce ancora una volta a proporre il live di  una leggenda del punk inglese. Se ad aprile i Discharge erano giunti nella venue meneghina a dimostrare di essere sempre all’altezza dei giovani discepoli del crust/d-beat, di fatto inventato dall’act inglese col seminale “Hear Nothing, See Nothing, Say Nothing”, a novembre è la volta dei GBH, altro pezzo da novanta della scena albionica dei primi anni ’80 e pure loro violenti come pochi si potevano permettere negli anni di dominazione thatcheriana del Regno Unito. Quando manca una mezz’ora abbondante all’esibizione del gruppo di supporto, i milanesi Ruggine, c’è già un discreto numero di unità dentro il locale. Il pubblico copre una fascia d’età ampia, dai giovanissimi, molti con creste iperlaccate, agli attempati punkettoni sulla cinquantina. Sono pochi invece i metallari puri, a differenza di quanto successo in primavera coi Discharge e con i Doom l’anno passato.

 RUGGINE

I Ruggine assemblano una formazione divisa tra personaggi di esperienza e ragazzi tra i venti e trent’anni, un mix eterogeneo venutosi a creare nei pochi anni di attività del combo. Formatisi nel 2009, hanno pubblicato da poco il secondo disco “Apocalisse”, preceduto dall’ep di debutto “Milano Hardcore” e dal primo album “Stai Sicuro”. Stilisticamente sarebbero un gruppo di apertura ideale, collocandosi in una terra di mezzo tra l’hardcore americano della peggio New York anni ’80, che costituisce la fetta preponderante del sound, e il punk inglese di fine anni ’70 e inizio anni ’80, presente in misura più contenuta nel loro bagaglio culturale. La muscolarità sfacciata degli stilemi americani è mitigata dall’indole rock’n’roll che andava per la maggiore in Inghilterra, così che sul piano strumentale troviamo una discreta alternanza di umori sia tra una song e l’altra che all’interno dei singoli brani. La scrittura però è poco smaliziata, prevedibile, sa molto di routine e di vecchie consuetudini, non ha quella irrequietezza e quell’abrasività che fa diventare interessanti anche le formazioni più derivative. Per il contesto live l’energia emanata e l’indubbio entusiasmo dei componenti della band potrebbero anche bastare per non far affogare completamente l’esibizione, peccato che il cantante sia quantomeno inadeguato e incapace di assolvere dignitosamente al proprio ruolo. Egli ha una timbrica fastidiosa, stona che è un piacere, fatica a seguire le metriche del cantato, finendo per correre dietro alle parole quasi ansimando per non perdere completamente il filo. Stenderei poi un velo pietoso su quanto detto tra un pezzo e l’altro, trattandosi di frasi trite e ritrite su ribellione, valori punk e via discorrendo nel qualunquismo più terra terra.

Il pubblico più vicino al palco sembra comunque apprezzare, mentre dietro qualche sguardo perplesso lo si coglie. Una cover degli Agnostic Front fa guadagnare qualche punto ai ragazzi, che lasciano lo stage giustamente contenti per l’opportunità ricevuta.

 GBH

Odore di anarchia e di rottura delle regole, maleducata sfrontatezza e caotica devastazione urlate ai quattro venti, visioni di grigie periferie scosse dalla rabbia giovanile. Sono passati trent’anni e rotti dagli esordi, eppure i GBH riescono ad evocare questo e molto altro con la stessa vividezza di quando sono diventati un nome che conta alle orecchie di pubblico e critica. Genuini, veri, troppo radicalmente punk per tirarsela e sforzarsi nell’interpretare una parte. Non ne hanno bisogno, lo spirito dei quattro è quello degli esordi, qualche ruga in più e per alcuni qualche capello in meno, ma la sostanza è sempre identica. L’anno passato ci avevano spazzato via in uno splendido pomeriggio francese votato all’hardcore nella sua forma più furibonda e metallica, in cui i GBH si erano ritrovati a stare a completo agio a fianco di gente come Victims, From Ashes Rise, Tragedy, forti di una attitudine live più arcigna che su disco. Oggi confermano quella impressione di risolutezza e compattezza, solo nei primi minuti la chitarra e la voce di Abrahall sono leggermente frenate nel vigore, ma non fai nemmeno in tempo a coltivare dentro di te l’idea di un appannamento che il gioco si fa duro, tremendamente duro. I punkers di Birmingham rappresentano l’anello di congiunzione tra l’UK punk classico e il triplo salto carpiato verso il metal del crust/d-beat brevettato dai conterranei Discharge. Rispetto ai colleghi appena citati una minima melodia è quasi sempre percepibile, l’attitudine cazzara si intromette tangibilmente nel caos di canzonacce tipiche della vecchia scena inglese, il modo di concepire le canzoni è inconfondibile e riporta a quel periodo, ma in fondo non puoi non accorgerti del marchio GBH stampato sui singoli brani, taglienti come schegge di vetro conficcate nelle braccia. Come un vecchio diesel che abbisogna di un po’ di tempo per carburare al top, i britannici acquistano brillantezza col trascorrere dei minuti. E se sul palco la baraonda, ottimamente gestita dal mixer con suoni impeccabili che non sacrificano alcuno strumento, va crescendo come uno tsunami, nelle vicinanze si scatena il finimondo. I più scatenati sono i ragazzi con meno primavere sulle spalle, su tutti una compagnia di giovanotti di origine sudamericana che ne combina di tutti i colori e sale più volte a far compagnia alla band, giovando della mancanza di una vera e propria security e di transenne, e favoriti dallo stage quasi rasoterra. E’ il bello del Lo-Fi, il non avere alcuna barriera tra musicisti e pubblico, e se come succede stasera nessuno esagera lo spettacolo ne guadagna di molto, con uno spontaneo ed esuberante coinvolgimento di astanti e strumentisti in un unico festoso casino. Era lecito attendersi un ampio ripescaggio dai primi lavori, quelli che hanno reso famoso nel mondo il marchio delle Gravi Lesioni Personali, e così è stato. “Time Bomb”, “Sick Boy”, “Maniac” sono inni senza tempo, suonati con trasporto e sicurezza da una band per cui la pensione è al momento lontana. L’atteggiamento dei quattro è scevro da spacconate e moine, le pause non durano mai troppo e Abrahall non si perde in verbosi discorsi, annuncia i pezzi in maniera concisa e poi li interpreta con la sua sardonica asprezza, senza denotare cali nella potenza delle tonsille. Ho vissuto gli attimi più esaltanti all’altezza dell’accoppiata “City Baby Attacked By Rats”/”City Baby’s Revenge”, in chiusura prima del bis, ma tutto il concerto è stato di gran livello e ha lasciato un vistoso sorriso stampato in volto a tutti i convenuti, in numero adeguato alla portata dell’evento.