Loading

GODS OF METAL 2010 – terza giornata

La terza giornata del Gods Of Metal 2010 è quella più succulenta, proponendo una schiera di band molto classica, forse anche un po’ prevedibile visto che bene o male, tranne un paio di casi, sono tutti gruppi che dalle nostre parti si riescono a vedere senza troppi problemi; è fuori discussione, però, che di fronte a certi nomi i brividi lungo la schiena corrono sempre e comunque. Così, pur con lo spostamento della kermesse nell’infognato recinto da animali del Parco della Certosa Reale (che detto così fa figo e pensi a una reggia, peccato che del parco abbiano concesso per l’evento l’angolo più infimo di tutta l’area circostante), una buona massa di metallari si riversa già dalla tarda mattinata in quel di Collegno.
A livello organizzativo, le pecche sono le solite: una zona concerti inadeguata, ingiuriosa addirittura rispetto ad altre edizioni del medesimo festival, visto che l’Idroscalo di Milano, L’Arena Parco Nord o il Brianteo di Monza erano sicuramente luoghi più ospitali di questo ammasso di ghiaia, cemento ed erba rada, assai ristretto, in cui ci siamo ritrovati a deambulare tutto il giorno. Altro annoso problema, irrisolto e qualche volta ai limiti del comico e dell’assurdo, l’impossibilità di muoversi liberamente dentro e fuori l’area concerti. L’uscita dall’arena è concessa a sprazzi, e quando pensi che finalmente ci sia stato un processo evolutivo nella gestione dei flussi umani, con il sagace uso dei braccialetti per contrassegnare chi ha già mostrato il biglietto all’entrata e consentirgli di andare dove gli pare per tutta la giornata, ecco che con grande sconcerto del sottoscritto, e non solo, vedi che il tuo bel bracciale nero ti viene tagliato appena rientri in zona palchi. Ehhhh???? Che senso ha tutte le volte dare il braccialetto e poi tagliarlo? Non basta metterlo su una volta e tenerlo tutto il giorno, invece di doverne utilizzare uno nuovo all’uscita successiva? Misteri… Infatti i bracciali verso sera finiscono e ti mettono un timbro sul biglietto, per dire della confusione imperante e dell’incapacità di gestire la situazione. Cervellotico e indisponente è anche il metodo di pagamento agli stand delle cibarie, come al solito troppo pochi e con prezzi omicida: non più vil denaro ma gettoni, da ottenere di fianco al guardaroba: se l’idea doveva servire a snellire le code, direi che non solo ha fallito, ma ha centrato il non invidiabile risultato di raddoppiare le attese. Una coda per i gettoni, un’altra per ordinare, un’altra per mangiare. Un’agonia, dalla quale personalmente mi sono sottratto per rivolgermi a rivenditori esterni. Detto di una zona stand sempre troppo povera rispetto ai festival esteri e del posizionamento del secondo palco non troppo felice (anche se qui, a dire il vero, dato lo spazio a disposizione non si poteva poi fare molto), possiamo passare ai lati positivi, cioè tutto il resto. Dal punto di vista musicale la giornata è stata davvero di alto profilo, con esibizioni tra il buono e lo spettacolare spinto, suoni sempre all’altezza (un evento) e orari pienamente rispettati (quasi commuovente per gli italici standard).

imm

Il Devin Townsend odierno fa impressione: per chi lo ricordava stempiato e con i capelli lunghi ai lati, con l’area spiritata e l’occhio fuori dalle orbite, la sua metamorfosi recente, che ce lo presenta oggi totalmente rasato e quasi umano nell’espressione facciale, ci lascia disorientati. La nuova serenità che avrebbe trovato a livello personale nell’ultimo periodo della sua vita, perfettamente riflessa negli ultimi due dischi pubblicati, Ki e Addicted, gli permette di presentarsi al pubblico in una veste totalmente diversa da come ce lo ricordavamo. Quello che non è mutato in questi anni è la sua capacità di entrare in simbiosi con l’audience, qualsiasi cosa suoni, e di riuscire a creare simultaneamente nelle sue canzoni tanto una sensazione di leggerezza estrema e di irrealtà, quanto una potenza metallica pura e vitale. Gli occhi sono tutti per Heavy Devy, che regala smorfie assurde e movimenti corporei tra il clownesco, il cartone animato in carne ed ossa, il malato mentale consapevole e il bambino capriccioso. La sua chitarra disegna atmosfere lunatiche, in bilico tra ragione e follia, un attimo l’incedere è quello di un prog rock lievemente mosso, quello dopo è un’onda di tempesta che ti travolge e ti sbatte in un’altra dimensione. Fragili equilibri si compongono e si frantumano, con la voce di Devy che tra un effetto e l’altro sa essere suadente e aggressiva mantenendo una pulizia di fondo che sa di digitale e di futuristico, pur provenendo da viva voce di essere umano.
Con soli 45’ minuti a disposizione, il musicista canadese riesce comunque a soddisfare un po’ tutte le preferenze di chi ascolta: qualcosa dalle sue ultimi creazioni (Addicted, Supercrush), assaggi prelibati dal materiale degli anni ’90, una perla di Physicist (la splendida Kingdom), una chiusura stralunata sulle ali dell’anthem fintamente guerresco e conquistatore By Your Command, proveniente da quel gran disco, in attesa di celebrazione postuma fra qualche decennio, che è Ziltoid The Omniscient. Appena prima di questo pezzo, è proprio il caro alieno Ziltoid che fa la sua comparsata e consegna a Devy la chitarra: un’ultima trovata burlesca tra le tante simpatiche smorfie di cui il nostro eroe ci ha fatto dono, insieme alla sua musica sublime.

imm

Con qualche minuto di anticipo sul programma, arrivano sul palco piccolo del Gods i canadesi Anvil, un’istituzione dell’universo hard’n’heavy con i suoi trent’anni di attività. La gioia di suonare di Lips e compagni è una delle immagini più belle che il metal possa regalare, e l’allegra combriccola sale sul palco con la carica di sempre, allietando fin dalle prime note un pubblico che mescola thrashers indefessi e nuove leve incuriosite. Speed metal, hard rock, heavy classico si alternano nelle composizioni del terzetto, che scatena un sano pogo nel mezzo, celebrato con convinzione tra gli irriducibili della vecchia scuola. Uno show degli Anvil mescola tanta buona musica e momenti boccacceschi, ecco allora il sorridente singer tirar fuori dalla tasca il mitico vibratore con cui ogni tanto si diletta a suonare la chitarra, che vibra entusiasta come una scafata pornostar quando viene toccata dal membro artificiale. Modulando l’arnese alle sue diverse velocità (quali portentosi aggeggi ci regala la tecnologia…), Lips ci suona un assolo bello stridente, prima di rituffarsi nel macello di note che gli è consueto proporre. L’assolo di batteria di Robb Reiner è un altro stacco all’assalto sparato della band, che chiude con l’inno che contraddistingue al meglio il suo operato: Metal On Metal. Song cadenzata, viziosa, uno di quegli inni che non moriranno mai. La voce sgraziata di Lips è incantevole più di quella di una sirena quando canta: “Metal on metal, never will die, parties and concerts, keep it alive”, e l’emozione per questo brano è tanta, anche per chi non l’aveva mai sentito prima. Grandi Anvil!

imm

E’ l’ennesima volta che vedo i Saxon negli ultimi anni, e non ne ho mai abbastanza. Questa volta sono chiamati a sostituire i defezionari Ratt, a un orario inadeguato alla loro storia, ma la professionalità della band è sempre encomiabile e quando salgono on-stage e iniziano a martellare senza sosta sulle note di Heavy Metal Thunder, si capisce subito che assisteremo a un concerto all’altezza della loro fama. Data l’esiguità del minutaggio, i Saxon non completano le consuete scorribande tra passato e presente, e preferiscono stare dalle parti degli evergreen, concedendo al materiale recente il suo momento di gloria nella quadrata Live To Rock. Per il resto è una lotta di classici, proposti impeccabilmente e con vigorosa grinta dal gruppo, arrivato in questi anni a un grado di affiatamento e a un livello di performance tale da essere inattaccabile a qualsiasi critica. Il pubblico è dalla loro e incuranti del caldo abbrustolente ci si scatena sulle ritmiche telluriche di Dogs Of War, mid-tempo granitico potenziato mille volte dall’ugola di Biff, che non accenna mai ad infiacchirsi. Il singer è in formissima, da far invidia ai tanti che iniziano inesorabilmente a invecchiare già passati i vent’anni. Gli altri del gruppo seguono a ruota, non contentandosi di fare il compitino ma dando sempre una marcia in più alle composizioni. Il picco dello show è rappresentato da Princess Of The Night e Crusader: la prima travolge con uno dei riff più elettrizzanti della storia del rock, la seconda sboccia in tutta la sua epicità nell’aria carica di umidità di Collegno, armando di elmo e scudo crociato tutti i convenuti. Wheels Of Steel è l’occasione per far duellare la platea a chi urla più forte, con Biff che dirige le operazioni prima di riprendere a cantare e di condurci nella parte terminale dello show. Denim And Leather viene doverosamente dedicata a Ronnie James Dio, e stranamente non chiude le ostilità, perché i cinque minuti che mancano allo scadere del tempo previsto i Saxon non se li vogliono perdere e scagliano una delle loro hit più tirate, Dallas 1 p.m., e il cervello di quel gran puttaniere di Kennedy salta per aria un’altra volta. I Saxon bisognerebbe clonarli.

imm

Udo è una delle cose più tedesche in circolazione. E’ un personaggio fantastico, unico e inconfondibile a livello musicale, leggendario anche a livello fisico, tarchiato e possente come solo un operaio di un’acciaieria della Ruhr potrebbe essere. Sarà un metro e sessanta d’uomo, compattissimo, ha uno sguardo magnetico impressionante, è quasi uno specchio. L’occhio chiarissimo scruta e concupisce, la sua band, dalle note quanto mai simili agli Accept, è una macchina di metallone teutonico quadrato e dalle melodie ispiratissime. Il singer non ha più la potenza incontrastata della giovinezza ma fa ancora una gran figura, è rimasta infatti l’asprezza della voce, grattata e sporca come nessun altro riuscirebbe a riprodurla. Udo si presenta on-stage in un elegantissimo completo militare tendente al grigio, che lo fa sembrare un esperto generale pronto a partire in missione all’estero. Le movenze on-stage sono grandiose: si piazza in un punto e inizia a caracollare sulle gambe tutto preso dall’andamento del pezzo, lo vedi assorto e concentrato, contento di quello che sta facendo ed estremamente partecipe alla propria musica. Pezzi come Thunderball e Man And Machine fanno breccia nell’audience, non c’è bisogno di conoscerle a menadito per andarci dietro e i chorus vengono cantati da tutti senza alcuna difficoltà. Una breve pausa introduce al momento che tutti stavano aspettando maggiormente, ovvero una manciata di song di acceptiana memoria. Ne arrivano solo due, ma sono oro zecchino. Con Metal Heart e Balls To Wall si va sul sicuro, e grazie a una coppia di chitarre veramente di alto livello rappresentata da Igor Gianola e dal sempiterno Stefan Kaufmann le versioni odierne non sfigurano rispetto a quelle acceptiane. Udo si diverte a farci cantare fino alla nausea questi refrain immortali, accompagnando con una mimica facciale incredibile le urla dei fans. Il piccolo singer non tradisce.

imm

Un buon modo di cercare la morte con molto onore. Buttarsi nel pit durante l’esibizione dei Cannibali è questo, e anche di più, una macelleria a cielo aperto ricolma dei peggio miasmi e dei peccati più turbi. Il brutal si sta portando a vertici di caos e tecnica delirante, ma se si vuole ascoltare questo tipo di musica nella sua forma più pura, gli uomini di George “Corpsegrinder” Fisher rimangono imbattibili. Formazione schierata larga sullo stage, chiome costantemente roteanti a sprezzo dell’integrità vertebrale, suoni grassi e debordanti: non si può chiedere di meglio. Sacrificando qualcosina alla precisione, e buttandola sulla brutalità smodata, le leggende del death metal colpiscono convinti per tutta l’ora a disposizione, scatenando il solito putiferio sotto il palco. L’atmosfera, già rovente per la temperatura, si alza a livelli inenarrabili man mano che il concerto procede. Il Corpsegrinder è particolarmente in forma, la sua furia crescente si abbatte su una folla sempre più incattivita dal ripescaggio dei classici di lusso della formazione floridiana. Skull Full Of Maggots e Devoured By Vermin sono le canzoni che più esaltano gli astanti, ma è con Hammer Smashed Face che si arriva all’apice dell’intensità. Lo scambio di sguardi iracondi tra pubblico e singer rimane per tutta l’esibizione simile a quello di due bestie che stanno per scannarsi reciprocamente, e pur rimanendo tutti quanti illesi, moralmente ci si è davvero scarnificati fino al midollo.

imm

Max ha raggiunto in questi anni un girovita di livello ragguardevole, la sua chioma è un covone di fieno incrociato a un cespuglio di rovi, mette sandali da monaco tutto l’anno, incurante dello scorrere delle stagioni, veste completi militari da assalto ai vietcong in ogni occasione. Un altro conciato così scatenerebbe risate incontenibili, lui no: lui rappresenta uno dei massimi simboli del metal estremo, e anche in queste condizioni emana il consueto carisma. Conta poco che i Soulfly si esibiscano sul palco piccolo, Max è infoiato alla sua maniera e ci dà dentro come se fosse l’headliner assoluto. La voce regge bene e Rizzo alla chitarra solista non sbaglia un colpo, mentre gli aficionados dei nostri si stringono attorno al piccolo stage non facendo mancare nemmeno per un attimo il supporto ai quattro musicisti.
I Soulfly non fanno miracoli, ma le loro sfuriate minimali, ai limiti dell’hardcore, i loro consumati tribalismi, la carica caotica di Max sono ingredienti sempre vincenti. Aggiungeteci strategici stacchi ritmici per far saltare all’unisono il pubblico, e il gioco è fatto. Prophecy, Blood Fire War Hate, Unleashed (su cui si scatena un wall of death) sono sempre dei signori pezzi e l’esibizione fila via tra i cori entusiastici di un pubblico che non ne avrebbe mai abbastanza del buon Max e della sua combriccola. I momenti topici sono (ma c’è bisogno di dirlo?) gli unici due pezzi dei Sepultura proposti quest’oggi, Attitude e Refuse / Resist, ma tutto lo show va in archivio più che positivamente.

imm

Basterebbero logo della band a fondo palco, muro di Marshall dominante sul pubblico, e l’apparizione dei tre musicisti a spiegare la situazione nella sua ovvietà. La cronaca del concerto la potete scrivere voi, se appena appena conoscete i Motorhead vi potete immaginare quello che è successo. Se così non è, posso impegnarmi quanto ho voglia, ma una reale descrizione di cosa voglia dire partecipare a un concerto degli immortali rockers inglesi sarà sempre insufficiente a spiegarne la grandezza. Per capire qualcosa di più, ancora prima che il trio salga (con un quarto d’ora di ritardo) sul palco, meglio guardare negli occhi i presenti, che si assiepano attorno al palco come alla venuta di un messia. Giovani e meno giovani, fan dei Bullet For My Valentine e defenders, deathsters truci e powerofili di primo pelo, non ci sono distinzioni tra genti diverse quando mister Lemmy Kilmister, con voce arrochita, scandisce: “We Are Motorhead, And We Play Rock’n’Roll!”. Se l’attacco è ultraclassico (Iron Fist e Stay Clean), già al terzo pezzo si cambiano un po’ le carte in tavola e arrivano le giovincelle Be My Baby (da Kiss Of Death, una song dal riffing metallico e serrato), e Rock Out, tradizionale anthem a volume spianato proveniente dall’ultimo Motorizer. Dopo un’aggiustatina al drum-kit di Mikkey Dee è l’ora di Metropolis, seguita in un amen (le interruzioni e il dialogo col pubblico non sono mai state una specialità di casa Motorhead) da One Night Stand e The Thousand Names Of God, brano di chiusura dell’ultimo album. A metà concerto sono già tutti con la bava alla bocca dalla contentezza, eppure manca ancora tanta roba: I Got Mine (da Another Perfect Day), Cradle To The Grave (un’oscura b-side), il capolavoro In The Name Of Tragedy, palcoscenico perfetto per l’assolo di Dee. Sul finale, poche sorprese: l’armageddon di Going To Brazil, Killed By Death, l’obbligatorio bis con le immancabili Ace Of Spades e Overkill. E sugli strumenti in saturazione totale di questo pezzo, col pubblico meno smaliziato che resta fisso sul palco sperando che lo show abbia ancora un prolungamento, il Gods 2010 si chiude in bellezza, lasciando un ricordo migliore di quelle che erano le aspettative della vigilia.