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Live Report David Coverdale, Ian Gillan e Robert Plant

Non capita tutti i giorni di poter assistere dal vivo, nel giro di poco più di una settimana, alle performance di 3 dei più grandi e influenti cantanti della storia. Prima che sorgano dei fraintendimenti bisogna mettere in chiaro subito una cosa. Quest’articolo è scritto con una certa dose di ironia e siccome paragona 3 mostri sacri (e ognuno di noi ha il suo preferito) non deve essere preso come un giudizio assoluto. Le date che prenderemo in oggetto sono quella dei Deep Purple a Genova del 12/07, quella degli Whitesnake a Pistoia del 15/07 e infine quella di Robert Plant a Milano del 20/07.

Iniziamo con le location. L’Arena del mare a Genova, situata nel porto, col suo andirivieni di imbarcazioni è certamente suggestiva ma non regge il confronto con Piazza Del Duomo a Pistoia, vero e proprio luogo magico. L’arena davanti al Forum di Assago invece è uno dei posti più brutti che si ricordi grazie al calore emanato dall’asfalto e alle milioni di zanzare assetate di sangue. Ma passiamo ad analizzare qualcosa di più corposo, il look. Ian Gillan si presenta con maglietta e pantaloni neri che lo fanno assomigliare più ad un tizio appena sbarcato da uno yacht che al cantante dei Deep Purple, sfidiamo chiunque a riconoscerlo camminando tra i moli del porto. Dal canto suo Plant sfoggia una bella camiciola nera a motivi rossi che fa molto figlio dei fiori e che ben si adatta alla sua proposta musicale. Vincitore incontrastato è Coverdale, con le sue camicie griffate Whitesnake e il non precisato numero di rosari, croci e braccialetti che a occhio e croce peseranno in totale 4 chili. Unico appunto che possiamo rivolgerli è che la bandiera italiana (sulla camicia) messa in quella posizione (in orizzontale) sembra più quella della Bulgaria.

Parliamo ora dell’aspetto visivo. Plant pur mantenendo la lunga chioma (anche se il colore dei capelli ha oramai virato sul grigio) si presenta con una serie di rughe (ricordiamoci che è un classe 1948) solo parzialmente attenuate da una barba ben curata. Per Gillan i capelli lunghi sono solo un bel ricordo di gioventù, ma contando che è il più vecchio dei tre (1945) se la cava ancora discretamente. David è David. Pur non essendo immune al passare del tempo (e le rughe non si possono non notare) ha ancora un aspetto che gli altri due pagherebbero per avere.

Fedeltà alle versioni originali. Coverdale che dir si voglia ha ancora una voce splendida. La difficoltà di riproporre i pezzi degli Whitesnake senza sfigurare è un’impresa ardua, qualche tono sotto e via. Stessa cosa per Gillan che riesce a dare il meglio nei pezzi estratti da “Now What?!” e in canzoni più “semplici” come “Lazy” o  “Strange Kind Of Woman”. Tutt’altro discorso per Plant che nel suo nuovo corso musicale (intrapreso da anni) ha rivisitato i classici dei Led Zeppelin come “Rock And Roll” e “Black Dog” donandogli una nuova veste, sicuramente meno rock ma non per questo meno coinvolgente. Chi sarà invece il maestro delle pause? Tutti direbbero Coverdale, ma in realtà quello che si ritira maggiormente dal palco è Ian Gillan. Nel corso degli anni molta gente si lamentata dei lunghi assolo strumentali negli Whitesnake preferendo avere qualche canzone in più. A nostro parere è meglio che David arrivi fino in fondo a cantare “Still Of The Night” piuttosto che arrivarci scoppiato. Stessa cosa per Gillan. Plant invece, pur lasciando libero sfogo alla maestria dei musicisti al suo soldo, è quello che prende meno pause, ma anche quello che suona di meno (in media 15/20 minuti in meno rispetto agli altri due).

Capacità del Frontman. Qui il vincitore indiscusso è Coverdale. La carica del ragazzo classe 1951 è stratosferica. Le sue classiche movenze, che hanno fatto storia, ne fanno indiscutibilmente il vero maestro dei Frontmen. Inoltre lo sguardo che “insemina” rischia di fare vittime anche tra i maschietti oltre che tra il gentil sesso. In ultimo la sua grande maestria nell’intrattenere il pubblico è rimasta inalterata nel corso degli anni. Gillan invece ha un’atteggiamento più compassato, ma bisogna tenere conto che lui è l’unico che deve confrontarsi con una band che possiede il suo stesso carisma. Plant pur essendo il dominatore incontrastato della scena ha perso un pochino di mobilità, ma le sue classiche pose (anche se meno estroverse) sono sempre una manna per gli occhi. In ultimo prendiamo in considerazione la prestazione vocale. Ian Gillan ha cantato bene (se escludiamo “Highway Star”, oramai ben lontana dai suoi registri) deliziando la platea con ottime versioni di “Hard Lovin’ Man”, “Hell To Pay” e “Perfect Strangers”. Plant è stato perfetto dalla prima all’ultima canzone, se dovessimo mettere i puntini sulle “i” sceglieremmo “Rainbow”, il medley “I Just Want To Make Love To You/Whole Lotta Love/Hey Bo Diddley” e la conclusiva “Going To California”. Coverdale infine ha dato prova di un’intensità mostruosa dove i classici degli Whitesnake ne sono usciti in maniera incredibile. Tra “Here I Go Again”, “The Deeper The Love” o “Love Ain’t No Stranger” è difficile scegliere quale sia stato il migliore.

Gillan, Coverdale e Plant al giorno d’oggi hanno i loro punti di forza e i loro punti deboli, ma restano comunque tre icone con le quali sono cresciuti generazioni di cantanti. Non perdeteveli dal vivo e concedete loro qualche attenuante, non sappiano quanto ancora potranno deliziarci. In ogni caso lunga vita a tutti e tre!