Devo ammettere di essere stato abbastanza combattuto nella valutazione del nuovo lavoro dei This broken machine. Da un lato c’è un ottimo concept che affronta lo sfruttamento e la mercificazione dell’essere umano sul posto di lavoro, oltre a influenze musicali “nobili” e varie, in primis A perfect circle e Soundgarden nei frangenti più melodici (i nomi tirati in ballo nel press-kit, ovvero Tool, Mastodon, Isis e Deftones, sono invece tanto roboanti quanto fuorvianti e inarrivabili). Sull’altro piatto della bilancia bisogna purtroppo inserire ua produzione appena discreta, una tecnica individuale non eccellente e le parti più pesanti dove la band non sembra trovarsi a proprio agio, annaspando spesso in quell’oceano chiamato metalcore che sminuisce le loro potenzialità. Il quartetto spesso soffre di crisi di identità e non sa bene quale strada prendere, trovandosi così in quel limbo tra melodia e rigide quadrature metaliche che annovera anche ospiti illustri come 36 Crazyfists e Ill Nino. Ma se le due band citate se la sono sempre cavata con classe e un pizzico di paraculaggine, i nostri sono spesso vittime della loro inesperienza e dell’ambizione che li ha portati a mettere troppa carne al fuoco in un’album che risulta troppo eterogeneo e dispersivo. Un vero peccato, perché i nostri si trovano meraviglia nelle parti più melodiche, in cui la voce pulita si ritaglia un ruolo di protagonista assoluta grazie alla sua intensità e profondità. Le parte più aggressive invece sono penalizzate da una voce fin troppo strozzata e da strutture musicali fin troppo statiche e scolastiche, che aggiungono sì varietà ai brani ma non hanno mai nè l’impatto nè la tecnica per riuscire ad elevare i pezzi verso il livello delle band di riferimento. Un vero peccato che i milanesi non si concentrino maggiormente sulle parti che gli riescono meglio, che si potrebbero quasi definire post-grunge, dove melodie malinconiche e una certa attitudine progressive si incontrano per dare vita a piccoli gioielli. Basta prendere ad esempio la meravigliosa “Alone”, un perla semi-acustica con tanto di violini di un’intensità unica, capace di regalare emozioni fortissime. I Pearl Jam non scrivono una canzone così da una vita e mezzo, bisogna rimettere “Black” nello stereo per sentire qualcosa di questo livello. Molto interessante anche la conclusiva “Machines”, brano lunghissimo e dalla costruzione molto articolata in grado di stupire in più occasioni. Dopo un paio di minuti tirati il brano vira verso sonorità dilatate e dissonanti, a metà tra il post e il prog decisamente coinvolgenti e intriganti. Anche il crescendo finale è appropriato, abbastanza originale e ben studiato anche nei cambi di tempo. Peccato che nel resto dell’album le parti più pesanti non siano assolutamente all’altezza: riff troppo spesso simili tra di loro e breakdown prevedibili nel loro arrivo e scolastici nell’esecuzione.
I TBM purtroppo vivono una preoccupante crisi di identità. Sublimi nelle parti più melodiche quanto pacchiani e scontati in quelle più pesanti. Per il futuro devono assolutamente trovare la quadratura del cerchio; la speranza da parte mia è che un’intensa attività live possa aiutarli a mettere a fuoco i loro lati più riusciti e sviluppare una maggiore personalità. Per ora The inhuman use of human beings è un album con qualche spunto interessante ma anche troppe lacune.