Secondo album in studio per la band svedese formatasi nel 2011, dopo 3 EPs, l’album omonimo del 2014 e il seguente live del 2015.
Un artwork molto curato, come negli episodi precedenti, rimanda la mente ai dischi rock psichedelici anni ’70, elemento fondamentale che ritroviamo anche nel sound dei B.P. Ma se il primo disco era quasi totalmente orientato verso sonorità hard blues psichedeliche, “Lady in Gold” riprende quanto di buono fatto in precedenza ma con incredibile maturità. Colpisce in particolar modo l’innesto di suoni che vanno dal soul al Rhythm ‘n’ Blues, il tutto arricchito da venature gospel. Dopo soli due anni, è impressionante quanto la band sia cresciuta nello sviluppo del songwriting e di come il chitarrista Dorian Sorriaux, il bassista Zack Anderson
e il batterista André Kvarnström cuciano la loro musica come un abito sartoriale addosso
alla bellissima cantante Elin Larrson: una voce nera nel corpo di un angelo biondo. La bravura della giovane singer svedese sta nella duttilità e nell’estensione vocale, ma non si ferma a questi due elementi: Elin omaggia le sue artiste preferite, giocando continuamente con diversi stili ed attitudini.
L’incipit di questo lavoro infatti è molto più “hard soul” che hard rock o blues, rispetto al disco di debutto: sia nella title-track che in “Little Boy Preacher”, la cantante svedese riprende Shirley Bassey e Aretha Franklin, dando quel profumo di vinile, di Motown, che la band sa trasformare in qualcosa di estremamente moderno. “Burned Out” sarà ricordata a lungo come la “Mistreated” dei Blues Pills: partenza lenta, ma subito incalzata dal drumming sapiente di Kvarnström, quasi in controtempo, dalla chitarra blueseggiante e dai vocalizzi di Erin. “I Felt A Change” è una ballad mozzafiato, dove la voce è accompagnata solo dalle tastiere; un brano altrettanto strepitoso è il seguente “Gone So Long”, dove Elin sembra cercare un confronto con la cantante pop Adele, vincendolo senza difficoltà. Con “Bad Talkers” si torna al sapore vintage di un pezzo che deborda di Soul e di Rhythm and Blues, tanto efficace che non sfigurerebbe all’interno di un film come “The Blues Brothers” o “Le Iene”. Nostalgia di pezzi più tosti? Niente paura: i seguenti tre episodi del disco innalzano il livello di cattiveria, passando dal blues di “You Gotta Try” all’hard rock/stoner di “Won’t Go Back”, fino alla psichedelia e alle chitarre distorte di “Reflections”, sicuramente il brano più cattivo e malato dell’intero lotto. Il disco si chiude con l’unica canzone al momento eseguita dal vivo durante il precedente tour: “Elements and Things”, rifacimento del pezzo di Tony Joe White, originalmente edita nel 1969.
La cover è un altro elemento di novità rispetto al lavoro di esordio, ma la band assicura che si ripeterà nei dischi futuri.
“Lady in Gold” è un disco completo ed assolutamente maturo a dispetto della giovane età della band, che non solo ha mantenuto le aspettative del bel disco di esordio, ma le supera abbondantemente, confezionando un piccolo capolavoro.